L'Australia sceglie il suo governo e se stare con la Cina o con l'America
Lo scontro tra il leader dell'opposizione Shorten e l'attuale primo ministro Morrison si gioca anche su quale rapporto avere con Pechino, il più grande partner commerciale del paese
Roma. Uno dei discorsi più famosi di Bob Hawke, celebrato primo ministro australiano morto ieri a 89 anni e che guidò il paese dal 1983 al 1991, sancì l’inizio di un nuovo corso dell’Australia nei confronti dell’ingombrante, nonché necessario vicino: la Cina. Era il 16 giugno del 1989, soltanto dodici giorni dopo il massacro di piazza Tian’anmen – di cui quest’anno ricorre il trentesimo anniversario. Di fronte alle telecamere, raccontò quello che gli era stato riferito da alcuni cablogrammi arrivati da Pechino: “I soldati hanno ricevuto l’ordine di non risparmiare nessuno, e bambini e ragazzi sono stati massacrati senza pietà, così come molti soldati”, e poi, con la voce rotta dalla commozione e le lacrime che gli scendevano sulle guance, disse che quelle persone erano “vittime della leadership, determinata a mantenere il potere a ogni costo”.
Quel giorno, senza essersi consultato con nessuno dei membri del governo, Hawke concesse il visto permanente alle famiglie di quarantamila studenti cinesi. Ha raccontato poi, anni dopo, che alla fine di quel discorso qualcuno gli si avvicinò e gli disse: primo ministro, non può farlo. E lui rispose: l’ho appena fatto. “Si chiama leadership”, disse Hawke in un’intervista al Guardian. Secondo diversi storici e analisti, la decisione di accettare così tanti immigrati cinesi all’epoca aiutò l’Australia a crescere economicamente. Trent’anni dopo quei quarantamila studenti fanno parte della comunità cinese australiana, la più importante per le elezioni generali che si tengono oggi. La morte di Hawke, che è considerato una delle figure fondamentali del Partito laburista, viene in un momento cruciale per la politica australiana.
Canberra arriva da anni di profonda instabilità politica, con un cambio di primo ministro in media ogni due anni dovuto quasi sempre alle guerre intestine ai partiti. L’attuale primo ministro, Scott Morrison, guida la coalizione al governo e il Partito liberale australiano, tornato al potere nel 2013 grazie all’ex primo ministro Tony Abbott. A capo dell’opposizione c’è Bill Shorten, leader del Partito laburista che nel 2010 si guadagnò l’endorsement di Hawke e che attualmente sarebbe leggermente avanti nei sondaggi. Shorten, cinquantadue anni, viene dal sindacato, e ha iniziato nel 2007 la sua carriera all’interno del Partito, ma è considerato un moderato e non ha molta presa sul pubblico. Uno dei suoi cavalli di battaglia è il referendum per trasformare la monarchia australiana in una repubblica – un referendum che in realtà si è già tenuto nel 1999 e che però gli australiani hanno bocciato, preferendo lo status quo con la Regina Elisabetta II, ma Shorten dice che il quesito era posto male.
Lo scontro tra Shorten e Morrison si gioca anche su quale rapporto avere con la Cina, il più grande partner commerciale dell’Australia. Canberra da decenni fa i conti con l’influenza strategica (e anche politica) di Pechino e soprattutto con il nuovo corso del presidente Xi Jinping – domande che invece qui in Europa abbiamo iniziato a porci soltanto da poco. In un post sulla piattaforma online cinese WeChat, qualche giorno fa Shorten ha scritto che se diventerà primo ministro, accoglierà “con favore” l’ascesa della Cina nel mondo, perché la Cina “non è una minaccia strategica ma una strategica opportunità”. Parole che “hanno dimostrato la sua lontananza dall’Amministrazione Trump”, ha scritto il New York Times, “che invece lancia allarmi sulle ambizioni cinesi.
Pur riconoscendo strategica l’alleanza con gli Stati Uniti, Shorten ha detto che è giunto il momento per il paese ‘di cavarsela da solo e pensare da solo’”, anche aderendo ufficialmente alla Via della Seta. E’ un cambio di rotta rispetto alle politiche del Partito conservatore al governo, che ha sempre cercato il “contenimento” della Cina anche in virtù dell’alleanza con Washington. Shorten di sicuro si rivolge anche a quel 5,6 per cento della popolazione australiana che ha origini cinesi e gli immigrati cinesi, secondo il Wall Street Journal “il blocco chiave” delle elezioni di oggi.