Tutti gli affari (e le assenze) di Mr Brexit che vive grazie all'Ue cattiva
Finché non c’è la Brexit c’è speranza e finché c’è un’Europa dalla quale fuggire, Farage e i suoi hanno ragione di esistere
Londra. Il filo di ragnatela che teneva insieme Theresa May e Jeremy Corbyn impegnati in una improbabile trattativa per scrivere un accordo sulla Brexit che potesse trovare i voti dei Comuni è, prevedibilmente, naufragato. Così, a tre anni dal referendum e a poco più di quattro mesi dalla prossimo ultimatum dato dall’Ue (il 31 ottobre), il Regno Unito è ancora lì dove lo avevamo lasciato: nel pallone. Per di più giovedì si vota per le elezioni europee che, in teoria e almeno per il 51 per cento degli inglesi, non si sarebbero neppure dovute tenere. Un caos completo e anche un po’ fine a se stesso in cui l’unico che si sfrega le mani è Nigel Farage. Non tanto e non solo perché sembra avviato a ricevere una valanga di voti con il suo Brexit Party fondato meno di un mese (i sondaggi lo danno attorno al 30 per cento; tra gli 8 e i 10 punti al di sopra del secondo classificato, che finora era il Labour ma che secondo un’ultima rilevazione sono i Lib-Dems). Ma soprattutto perché, a quanto pare, lui stesso, dalla permanenza del Regno Unito nell’Ue ha solo da guadagnare. Prima di tutto dal punto di vista politico: finché non c’è la Brexit c’è speranza e finché c’è un’Europa cattiva dalla quale fuggire, Farage e i suoi hanno ragione di esistere. Poi perché la questione leave/remain pare essersi tramutata in un ottimo affare per gli antieuropeisti, soprattutto per Farage, passato in una manciata di anni dall’essere un oscuro politico locale a fare una vita da nababbo in un appartamento di Chelsea. Niente di male, eh: nessun lavoro si fa gratis, figuriamoci il profeta anti Europa. Il problema però è chi è stato a pagare per l’arricchimento di Mr. Farage.
A quel che sembra, le fonti dei suoi guadagni sarebbero il suo lavoro da europarlamentare e da conferenziere e opinionista in televisioni e radio (cosa che sembra gli abbia fruttato circa 700 mila sterline), poi i vari rimborsi avuti dall’Europarlamento e infine il suo ruolo nel recente scacchiere geopolitico Moscacentrico. Se sulla prima voce non c’è niente di male, sulle altre due voci si sono messi a indagare il Parlamento europeo e la redazione inglese di Channel Four. Il primo ha scoperto che il gruppo Ukip (l’ex partito di Farage) ha chiesto e ottenuto rimborsi non dovuti per circa 500 mila euro. Questi soldi sono stati versati dall’Ue ai transfughi inglesi per pagare gli stipendi dei loro assistenti parlamentari, che in realtà erano esponenti locali dell’Ukip e a Bruxelles non hanno mai messo piede. Nel computo dei finti portaborse compaiono anche l’assistente di Farage, Christopher Adams, l’ex leader dell’Ukip tra il 2016 e il 2018, Paul Oakden, ufficialmente portaborse del deputato Roger Helmer e la moglie di Farage, Kristine (ufficialmente assistente parlamentare dell’eurodeputato Ray Finch). Tutti soldi che se davvero, come sembra, sono stati versati dall’Ue agli esponenti dell’Ukip senza che questi ne avessero diritto, dovranno essere restituiti.
Altre e più corpose sono le cifre scoperte, invece, dall’inchiesta del canale inglese Channel 4. In base a quanto rivelato dai reporter, Farage avrebbe ricevuto dal milionario Arron Banks (sotto inchiesta con l’accusa di aver fatto da tramite tra la Russia e la campagna di LeaveEU) generosissimi finanziamenti per la sua attività politica. Tra le varie voci di spesa finanziate da Banks: l’affitto di una casa a Chelsea del valore di 4, 4 milioni di sterline, nella quale Farage vivrebbe del tutto gratis, senza dover pagare neppure le bollette; una Land Rover con autista; l’affitto di un ufficio a pochi passi da Westminster; lo stipendio per l’assistente personale di Farage e una lunga serie di viaggi e di attività di lobbying negli Stati Uniti, per tessere i rapporti con il nuovo entourage di Donald Trump. In tutto sembra che la somma delle spese sostenute in un anno da Banks per Farage ammonti a circa 450 mila sterline. Non male per aver vinto un referendum.
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