Il presidente Donald Trump mentre lascia la Casa Bianca per il Colorado (Foto LaPresse)

L'impeachment di Trump eccita i dem. Perché due big molto diversi tacciono

Daniele Raineri

I democratici americani scivolano verso il miraggio della messa in stato di accusa del presidente. Chi resiste e perché

Roma. Il Partito democratico americano smotta verso la richiesta di impeachment. Adesso la conta di chi vuole cominciare la procedura per rimuovere il presidente Donald Trump ha superato i quaranta e si sono aggiunti tre candidati alle elezioni del 2020, Cory Booker, Pete Buttigieg e Kirsten Gillibrand. Altri candidati di punta, come Beto O’Rourke e Elizabeth Warren, hanno già detto di essere a favore e anche l’ala nuova del partito, quella entrata con le elezioni andate molto bene a novembre, ha già dichiarato di volere cominciare la campagna giudiziaria. “We’re gonna impeach the motherfucker”, disse la neodeputata Rashida Tlaib al party per festeggiare il suo primo giorno al Congresso.

 

L’impeachment di Trump è diventato la linea di faglia che divide la sinistra americana in due schieramenti, moderati centristi e sinistra battagliera. Lo scenario è lo stesso delle sinistre in Europa, dal Labour inglese spaccato sotto la guida di Jeremy Corbyn all’Italia dove Carlo Calenda prende molti voti alle elezioni ma è considerato come un alieno da una parte della sinistra. La linea di faglia è diventata molto visibile dopo che il procuratore speciale che ha guidato l’inchiesta, Robert Mueller, è comparso davanti alle telecamere per ribadire che il suo rapporto non dice che Trump è innocente e che la decisione finale non spetta a lui ma al Congresso – e anche per avvertire che non vuole essere chiamato a testimoniare davanti al Congresso. Invece è quello che potrebbe accadere, perché ieri i democratici hanno detto che ci sono troppe cose da chiarire e che intendono convocare Mueller in audizione.

 

La vecchia guardia del partito tenta come può di frenare questa corsa, che tecnicamente è destinata a finire contro il muro dei repubblicani al Senato. Ricordiamo che i democratici hanno i voti per far cominciare l’inchiesta ma non hanno la maggioranza qualificata di due terzi in Senato che è necessaria ad approvare l’impeachment. Possono dichiarare aperte le indagini, convocare testimoni, chiedere documenti, ma alla fine non potranno vincere a meno che molti repubblicani non facciano come Justin Amash, che finora è l’unico rappresentante repubblicano al Congresso a essersi dichiarato favorevole all’inchiesta – e che per questo ora è trattato come un paria dai colleghi di partito.

 

I democratici che sono a favore ribattono che l’inchiesta sarà importante e che in ogni caso conta fare quello che è giusto, non quello che conviene. Nancy Pelosy, la speaker dei democratici, prova in tutti i modi a fermare lo scivolamento verso la richiesta di impeachment ma perde qualche pezzo ogni giorno. Joe Biden, il candidato in testa ai sondaggi, finora non ha detto una sillaba. Per lui è meglio che la campagna elettorale proceda secondo l’andamento normale – se si può dire normale – e non che si trasformi in un processo pubblico a Trump. L’unica eccezione a questo schema è Bernie Sanders, che è sinistra sinistra ma che non si è esposto a favore dell’impeachment per la stessa ragione di Biden: quando sei messo bene nei sondaggi non vuoi elementi anomali a turbare la corsa.

 

David Frum, commentatore conservatore per l’Atlantic, mette in guardia i democratici massimalisti: l’impeachment rischia di assorbire e coprire molti filoni di inchiesta che potrebbero fruttare di più e che potrebbero essere molto dannosi per Trump, a cominciare dalle tasse e dai lavoratori clandestini nelle sue aziende. Inoltre l’impeachment diventerebbe un grande referendum nazionale sulla rimozione giudiziaria del presidente degli Stati Uniti, un concetto che potrebbe creare una reazione di rigetto in molti elettori. Infine, se il Senato dichiarasse Trump innocente a votazione, lui ne uscirebbe come spesso succede più forte di prima. La sinistra americana è tentata di comportarsi da sinistra senza compromessi e di imbarcarsi in una campagna idealista senza ascoltare ragionamenti strategici. In questi casi spesso prevale il più spregiudicato, cioè Trump.

Di più su questi argomenti:
  • Daniele Raineri
  • Di Genova. Nella redazione del Foglio mi occupo soprattutto delle notizie dall'estero. Sono stato corrispondente dal Cairo e da New York. Ho lavorato in Iraq, Siria e altri paesi. Ho studiato arabo in Yemen. Sono stato giornalista embedded con i soldati americani, con l'esercito iracheno, con i paracadutisti italiani e con i ribelli siriani durante la rivoluzione. Segui la pagina Facebook (https://www.facebook.com/news.danieleraineri/)