Le elezioni fantasma in Algeria
Il mese del ramadan tra le proteste pacifiche e colorate dei manifestanti. Le bandiere, i balli, l'arrivo della sera nell'attesa del voto
Oggi gli algerini hanno manifestato per il quindicesimo venerdì dall’inizio della loro protesta contro ciò che chiamano “il potere”, “il sistema” che ha guidato il paese per vent’anni. È una protesta pacifica, colorata, dove si vedono famiglie al completo con i bambini avvolti dalle bandiere algerine. In piazza si suona, si canta, si balla. E funziona: dopo settimane di braccio di ferro la piazza ha ottenuto un passo indietro da parte di Abdelaziz Bouteflika, il presidente uscente che aveva presentato la sua candidatura per la quinta volta consecutiva, nonostante fosse stato colto da un ictus nel 2013 e non fosse più in grado di camminare né di parlare in pubblico.
Icona della rivoluzione
(Foto di Francesco Maselli)
Il nuovo presidente ad interim, Abdelkader Bensalah, supportato dall’uomo forte del paese Gaïd Salah, viceministro della Difesa e capo di stato maggiore, ha convocato nuove elezioni per il prossimo 4 luglio, elezioni però rifiutate dalla piazza e boicottate dalla classe politica algerina: nessun candidato serio ha presentato la propria candidatura. “Il problema è che per tenere un’elezione c’è bisogno di candidati…e questi non vengono fuori”, aveva detto il ministro degli Esteri francese, Jean-Yves Le Drian, rispondendo alle domande dei parlamentari il 28 maggio. Insomma, l’Algeria è in piena transizione verso una democrazia, con tutte le difficoltà che questo comporta. La piazza dovrà trovare una forma di compromesso tra le sue diverse anime, e accettare di trovarne uno anche con “i generali”, nonostante i ripetuti slogan delle manifestazioni se la prendano proprio contro chi dirige l’esercito, percepito come principale “tappo” alle richieste di maggiore democrazia e trasparenza.
Il Foglio ha partecipato alla manifestazione del tredicesimo venerdì, al centro di Algeri. Le manifestazioni settimanali sono simili tra di loro, gli algerini hanno reso le loro marce pacifiche e pulite (alla fine di ogni venerdì centinaia di persone raccolgono ciò che è stato gettato a terra, cercando di lasciare le strade come le hanno trovate), un marchio di fabbrica e un atto politico difficile da ignorare dal governo provvisorio. A ogni angolo qualcuno discute di politica e attira i passanti che, durante il ramadan, non hanno altro pensiero che non sia evitare di perdere anche soltanto un minuto della nuova aria, della nuova libertà che si respira nelle strade di Algeri. Gli algerini si sono riappropriati dello spazio pubblico, e manifestano in un paese dove in teoria è ancora vietato farlo. Hanno dei riti, come quello della presa della Grande Poste, l’edificio diventato simbolo delle manifestazioni. Ogni venerdì mattina, la polizia circonda le scale della Grande Poste con un cordone di sicurezza per evitare di farle occupare dai manifestanti. Gli agenti si guardano in cagnesco per ore con i primi manifestanti, che con il passare delle ore diventano sempre di più. Qualche temerario prova a forzare il blocco, senza riuscirvi, finché, dopo le quindici, la pressione è tale che la polizia è costretta a ritirarsi tra gli applausi della folla, che prende possesso delle scale e canta e suona fino alla preghiera della sera.
(Foto di Francesco Maselli)
Tarik e Sid sono due fratelli che incontriamo a pochi passi dalla Grande Poste. È impossibile stare senza occhiali scuri, i palazzi sono bianchi, la luce si riflette, per gli occhi è faticoso. Tarik ha una grossa Canon con cui cattura le facce di chi è sceso in piazza, sorride, vuole parlare di politica, spiegare quali sono i prossimi passi della rivoluzione. Indica anche suo padre, che chiacchiera con un altro signore anziano e poco dopo si allontana: “È andato alla preghiera di mezzogiorno, ma torna in tempo per le due, quando comincia la vera manifestazione. Sappiamo tenere insieme fede e dovere civico, il potere non ci fa paura”. La sera stessa, Tarik ci invia una email con le sue foto, e ci ringrazia: “Grazie per essere presenti in Algeria e coprire la nostra rivoluzione”.
Fella, Samia e Fayza sono tre sorelle nate in Francia da genitori algerini, ma sono venute ad Algeri durante il ramadan per protestare insieme ai loro amici, parenti, conoscenti. Durante il mese sacro di giorno non si mangia, non si beve, non si fuma: si pensava le proteste potessero risentirne. Affatto dice Fella: “Non sarà certo un po’ di acqua e pane in meno a fermarci, anzi noi siamo venute apposta dalla Francia per manifestare durante il ramadan”. Le tre sorelle cominciano a parlare tra loro, a dire tutto il male possibile dei generali, del potere. Il potere, la parola torna per definire chi tiene in mano il paese, una concezione quasi arcaica dello stato, di una mano oscura che tutto decide e dispone. Il “governo” non arriva mai, in nessuna conversazione. Mentre discutiamo cominciano ad avvicinarsi altre persone. Come fai a perderti un dibattito politico? Da tre le voci diventano sei, poi dieci, poi venti. Alla fine si crea una sorta di comizio, nessuno ascolta più nessuno, tutti parlano, devono buttare fuori quello che prima non si poteva dire ad alta voce. Ma va bene così, la rivoluzione è anche questo.
(Foto di Francesco Maselli)