La contropropaganda di Vitaly Mansky
Il regista del putinismo riprende le immagini scartate, vede quel che gli era sfuggito e le trasforma in denuncia
Vitaly Mansky è un regista nato in Ucraina, si è formato a Mosca, è figlio di quel groviglio storico che è stata l’Unione sovietica e con la sua telecamera ha provato a dare un senso a quello che è venuto dopo, alla ricostruzione, alla nuova Federazione russa. Il 1999, il passo indietro di Boris El’cin e il salto in avanti di Vladimir Putin, sono stati oggetto di uno dei suoi primi lavori, dei video che Mansky ha girato per curare la comunicazione di questo cambiamento storico: Putin allora rappresentava la novità e il futuro. Lo stesso regista ha ammesso di aver seguito con speranza quei cambiamenti, quell’ex ufficiale del Kgb silenzioso e quegli occhi che guardavano sempre verso il basso. Mansky è stato autorizzato dal Cremlino a ritrarre per primo il nuovo uomo forte della Russia, filmando il passaggio di potere da El’cin a Putin doveva assicurare che il primo se ne andasse lasciando un buon ricordo e che il secondo arrivasse preceduto da un’aura di serietà e responsabilità. Nei corridoi del Cremlino, per le dace, in piscina, la telecamera di Mansky seguiva Putin che, dopo essere stato nominato presidente ad interim, puntava a vincere le elezioni. Putin appare insicuro, impacciato, poco a suo agio di fronte alla telecamera. Con il suo entusiasmo dimesso e l’aria costantemente preoccupata, Putin era stato scelto per due motivi, il primo perché sembrava facilmente malleabile, il secondo, quello ufficiale, era il suo cursus honorum nei servizi segreti russi.
L’operazione di propaganda di Mansky fu trasmessa solo per metà, al regista rimasero molte immagini, interviste, incontri, dialoghi. Nei primi anni del putinismo, Mansky ha lavorato per la televisione di stato, ha curato gli archivi storici e catalogato vecchi video del periodo sovietico, e mentre era in Russia si rendeva conto che quella non era la rivoluzione, ma il suo contrario: nessuno sarebbe stato in grado di fare meglio di Vladimir Putin la restaurazione. La decisione di ridare all’inno russo le note di quello sovietico, la nuova imposizione della retorica della Seconda guerra mondiale, la cancellazione delle colpe dell’epoca comunista. La speranza si stava “trasformando in tragedia”, dice Mansky, che nel 2014 decide di lasciare la Russia.
Con la distanza e con il tempo tutto gli appare più chiaro, anche quelle immagini di tanti anni prima rimaste nell’archivio del regista che inizia a capire che quello che ha filmato è il piccolo e prezioso testamento del putinismo: già lì, nel 1999, c’era tutto quello che sarebbe successo. Le immagini di propaganda si sono trasformate in un accurato lavoro di antipropaganda, in un documentario dal titolo: “I testimoni di Putin”. La storia è multiforme, dipende dal lato in cui si preferisce osservarla e quelle immagini, girate per celebrare l’ascesa del nuovo leader della nuova Russia democratica, diventano invece la denuncia di un sistema che democratico non è mai diventato. Già in quegli anni Vladimir Putin non accettava i dibattiti con gli altri candidati, come ha raccontato il regista durante le presentazioni del film, con il suo volto emaciato, l’espressione sempre seria, l’ansia che traspariva e traspare tuttora di poter perdere il controllo, lo rendevano simile “a uno Stalker, il personaggio del film di Andrei Tarkovski che procede cautamente all’interno di un campo minato”, ma una volta dentro al Cremlino si è scoperto che non aveva nulla di cauto, ma era duro, energico, dittatoriale. “I testimoni di Putin”, lavorato tra la Svizzera e la Lituania, racconta “come una società, volontariamente e quasi allegramente, si toglie dalla strada che porta alla democrazia e perde la sua libertà”, ha detto il regista allo Zurich Film Festival ammettendo che il suo più grande rimorso è di non essere stato in grado di vedere “tutto questo” in tempo.
Lo ha visto anni dopo, ripensando a quei filmati ad alcune parole – “l’unica cosa che conta è che la gente ci creda”, dice Putin a un certo punto del documentario, denunciando la strategia che seguirà anche nei suoi successivi mandati –, ha ripreso quello che doveva essere propaganda e lo ha trasformato nel contrario, in denuncia. La resipiscenza, a volte, è parte del fanatismo, il momento tardivo della verità, quando ci si ferma un attimo e ci si accorge che le immagini, da un’altra prospettiva, appaiono diverse. La rivoluzione era restaurazione, la cautela era dittatura, basta rendersene conto e in un attimo la propaganda è diventata contropropaganda. Può accadere a tutti, prima o poi.