Le altre Tiananmen
Come per la Cina, anche la verità sul massacro di Gwangju venne fuori dopo anni di manipolazioni e tentativi, da parte del governo di Seul, di giustificare la repressione
Nove anni prima del massacro di Pechino, in Corea del sud il movimento universitario si era mobilitato per chiedere democrazia contro l’autoritarismo di Seul. Le proteste iniziarono a Gwangju, nel sud del paese, il 18 maggio, e finirono il 27 maggio. Nel sangue. Agli studenti e ai docenti universitari, nei giorni di proteste, si unirono gli operai e i civili per protestare contro la legge marziale imposta in tutto il paese da Chun Doo-hwan, l’allora capo dei servizi segreti che qualche mese dopo diventò presidente della Corea del sud. Dopo diciotto anni di pugno di ferro del presidente Park Chung-hee, assassinato nel 1979, la società coreana era pronta a trasformarsi in una democrazia, ma quelle richieste furono ignorate, ufficialmente per il pericolo delle infiltrazioni nordcoreane. Come per la Cina, anche la verità su quanto accadde a Gwangju venne fuori dopo anni di manipolazioni e tentativi, da parte del governo di Seul, di giustificare la repressione. A oggi nessuno nega che quel massacro ebbe luogo, ma è incerto ancora il numero dei morti: secondo la Corte marziale le vittime furono 170, ma si parla di quasi duemila persone uccise per ordine del governo nelle varie città che aderirono al Movimento di Maggio.
L’attuale presidente Moon Jae-in, sin dalla sua elezione nel 2017, ha promesso di far luce sui fatti di Gwangju. Il 18 maggio scorso, durante l’annuale commemorazione spesso disertata dai presidenti, in un discorso alla nazione ha chiesto di lasciare da parte la partigianeria e l’interpretazione politica degli eventi, e ha incoraggiato il Parlamento a istituire una commissione d’inchiesta, che otto mesi dopo la richiesta del governo non è ancora nata proprio perché i gruppi parlamentari, trentanove anni dopo, si scontrano ancora sui fatti.