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Quando l'esercito del popolo uccise il suo popolo. Quei giorni del 1989 raccontati da chi c'era

Ilaria Maria Sala

“Sono tutti fuori. Donne e uomini, giovani e anziani. Col pigiama, spingendo il passeggino, con la fidanzata, col gruppo di amici”, scriveva sul diario Ilaria Maria Sala. Un libro

Pubblichiamo ampi stralci del libro “Pechino 1989” di Ilaria Maria Sala, appena uscito per le edizioni Una città. Le fotografie scattate da Sala nei mesi di aprile, maggio e giugno del 1989 sono uno straordinario documento dell’aria che si respirava a Pechino nei mesi che hanno preceduto il massacro. Ilaria Maria Sala è scrittrice e giornalista, vicepresidente di Pen Hong Kong. Scrive sul New York Times, Quartz, Hong Kong Free Press e Una Città. Ha pubblicato “Il Dio Dell’Asia: un reportage” (Il Saggiatore, premio Bruce Chatwin) e “Lettere dalla Cina” (Una Città)


   

Ogni volta che ricordo quei giorni rivedo gli sguardi pieni di ottimismo e speranza di chi marciava nei cortei, di chi pedalava per raggiungere gli altri, convinto di partecipare alla lotta per un futuro diverso, più aperto, per la Cina tutta.

Sguardi che non ho mai più rivisto a Pechino.

   

La notte c’era chi restava a osservare dall’alto, pronto a dare l’allarme nel caso si fossero visti spostamenti di truppe. Gli studenti avevano chiesto protezione e sembrava che tutti si fossero recati agli incroci per rispondere all’appello. I soldati erano alla stazione centrale dei treni e nella metropolitana, ma nessuno credeva che sarebbe potuto succedere qualcosa. Neanch’io. Dal mio diario: “Sono tutti fuori. Donne e uomini, giovani e anziani. Col pigiama, spingendo il passeggino, con la fidanzata, col gruppo di amici o amiche”. La piazza, intanto, era divenuta puzzolente; per quanti sforzi venissero fatti, mantenere l’igiene era impossibile. Molti degli studenti accampati lì, protetti dalle intemperie grazie a decine di tende blu inviate da un movimento pro-democrazia di Hong Kong galvanizzato dalle proteste, erano arrivati da fuori Pechino, pertanto non avevano altri appoggi.

      

La tensione aveva creato divisioni nel movimento: quelli venuti da altre città non erano disposti a tornare a casa con un nulla di fatto. Quelli che studiavano negli atenei della capitale, invece, avevano partecipato alle proteste fin dal primo giorno ed erano stanchi. Altri cominciavano a dire che sarebbero rimasti fino all’ultimo, anche nel caso di un attacco militare, per “dimostrare a tutti i cinesi la spietatezza del nostro governo” – come disse Chai Ling a un cronista americano, per poi pentirsene per il resto della vita.

    

Il 3 giugno, nel corso della notte fummo svegliati dalle urla: “Sparano!”. Corsi a vedere. Un autobus pieno di giovani, alcuni dei quali gemevano, altri erano immobili, forse morti, forse svenuti, altri ancora sotto shock, venne fatto fermare all’ingresso della Normale e poi lasciato entrare nella clinica dell’Università. C’erano macchie di sangue ovunque, sia all’esterno sulla carrozzeria sia all’interno fra i sedili. Lo si intravedeva dalle porte lasciate aperte per non schiacciare gambe e braccia che pendevano fuori inermi.

   

Quattro camionette di soldati furono immediatamente circondate dalla folla. “Cosa state facendo? – urlavano – L’esercito del popolo non può sparare al popolo!”. In lacrime, i soldati si tolsero le pistole dalla cintola e le consegnarono. Uno studente prese una bandiera rossa con entrambe le mani, salì sul cofano della prima camionetta e andarono tutti a nord, verso l’Università di Pechino.

   

In città sparavano. Con un amico, che mi era venuto a cercare perché non trovava la sorella, pedalammo verso il centro, affannati e attoniti per l’incredulità. Non si poteva passare, ma si vedevano colonne di fumo e improvvisi bagliori e si sentivano le urla, gli spari, il canto incongruo dell’Internazionale, le bestemmie contro i soldati. Vidi persone sanguinanti spinte su dei carretti verso gli ospedali, biciclette schiacciate e brandelli di vestiti rossi di sangue; vidi un soldato carbonizzato impiccato a un ponte.

   

Poco dopo l’alba, arrivammo davanti al Museo militare. I cancelli erano chiusi e all’interno c’erano decine di soldati, a gambe larghe, col fucile in mano. La folla si spingeva verso l’inferriata e urlava: “Cosa avete fatto? Avete ucciso gli studenti! L’esercito del popolo ha ucciso il popolo!”. Una signora gettò al di là del cancello delle scarpine da neonato insanguinate, gridando: “Guardate chi avete ammazzato!”. I soldati aprirono il fuoco. Io mi rifugiai dietro la bici, con il mio amico vicino, che disse: “Torniamo indietro. Vai a dire a tutti quello che è successo”. Quel giorno non trovammo sua sorella.

   

Me lo ripetevano in tanti. Alcuni, mettendomi in mano dei proiettili raccolti da terra, oppure delle magliette o altri indumenti insanguinati: “Vai, vai, racconta a tutti. Il mondo deve sapere che cosa hanno fatto ai cittadini inermi! Noi non possiamo fare niente: women meyou banfa”. Anche il mio amico, uno studente universitario che faceva un master in Scienze politiche, era convinto che il mondo avrebbe reagito con forza al massacro. Me lo disse mentre pedalavamo sbigottiti.

Lungo le strade, le persone avevano costruito delle barricate con tutto quello che avevano trovato: barriere metalliche, autobus incendiati, segnali stradali.

In lontananza si distinguevano colonne di fumo nero provocate da falò accesi dai pechinesi più infuriati, che si erano messi a bruciare quei vestiti militari che tutti indossavano: giacche, scarpe da ginnastica e quei cappotti imbottiti che io e la mia compagna di stanza avevamo disdegnato. Tutto quello che richiamava l’appartenenza all’esercito finiva nelle pire. Si salvarono solo i completi blu della marina militare. Le colonne di fumo nero che provenivano dal centro, invece, erano il risultato dei fuochi accesi dai soldati. Credo bruciassero ciò che i dimostranti si erano lasciati indietro, ma la folla infuriata era convinta che stessero bruciando i cadaveri. Da allora, ho letto sia conferme che smentite di questa notizia. Intanto l’odore della plastica delle cinture dell’esercito e delle scarpe di gomma si appiccicava a tutto e bruciava le narici.

     

Incamminandomi per tornare all’università, mi fermavo a parlare coi negozianti del quartiere dai quali mi servivo tutto l’anno, per cercare conforto nei loro volti noti e adulti. Un passante mi offrì una fascia nera di cotone, che stavano già portando in molti. La misi al braccio, fissandola con una spilla da balia. Continuavamo a sentire spari che si avvicinavano.

La mia università ricevette infine un ultimatum: gli studenti dovevano lasciare le armi fuori dalla porta (quelle lasciate dai soldati, forse?) o l’esercito sarebbe entrato.

Il giorno dopo venni prima portata in un albergo dove l’ambasciata italiana aveva affittato delle camere per mettere al sicuro i connazionali. Poi, da lì, fui “rimpatriata” dall’ambasciata britannica a Hong Kong, all’epoca colonia inglese; figuravo nella sua lista in quanto studentessa della Soas, la School of Oriental and African Studies. Dopo alcuni giorni arrivai in Italia. Avevo ancora la fascia nera al braccio.

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