Stare fermi, non fare nulla. La regola di Sánchez per formare il governo
A due mesi dal voto, la Spagna non ha ancora un esecutivo e il leader del partito socialista non sembra esserne preoccupato. Ecco perché potrebbe avere ragione
Milano. A leggere i giornali spagnoli di ieri, non sembra che Pedro Sánchez, presidente del governo facente funzioni, sia nel pieno di un passaggio storico della sua carriera politica. Sánchez, leader del Partito socialista (Psoe), ha vinto le elezioni politiche di aprile e quelle europee e amministrative di maggio, ma ancora non ha formato un governo, perché i suoi A due 123 deputati sono decisamente pochini per raggiungere la maggioranza assoluta di 176. Ieri sono terminate le consultazioni con re Felipe, il capo dello stato, nel palazzo reale della Zarzuela, e verrebbe da supporre che Sánchez sia un fascio di nervi. Invece, per esempio a leggere il Páis, si trovano titoli del tipo: “Sánchez arriva alla Zarzuela senza aver fatto negoziati con nessuno”. Sotto, una foto di Sánchez sorridente, come uno studente che non ha fatto i compiti.
La prima ragione della tranquillità di Sánchez sta nel quadro politico che gli sta attorno. Mentre il Psoe è solido come non mai (quando vinci nessuno osa fiatare), alla sua sinistra Podemos si sta disgregando. Il partito di Pablo Iglesias ha subìto una sconfitta alle politiche e un tracollo alle europee e amministrative, e le cronache sono piene di pugnalate tra compañeros, e di purghe di Iglesias tra la dirigenza del partito.
A destra del Psoe, l’alleanza delle destre è in crisi. Dopo le amministrative, in molti centri importanti (tra questi il comune di Madrid) le destre potrebbero spodestare i governi di sinistra, ma per farlo serve la stessa alleanza fatta in Andalusia: Ciudadanos, Partito popolare (Pp) e Vox, il partito neofranchista ed estremista, tutti assieme a contenere socialisti e Podemos. Il problema per questa alleanza è che Albert Rivera, leader di Ciudadanos, ha cominciato a fare lo schizzinoso nei confronti di Vox. L’ala progressista del suo partito gli chiede disperatamente di non fare da porta di ingresso per gli estremisti nei governi locali di mezza Spagna, e Sánchez, la notte stessa delle amministrative, ha fatto una furbissima invocazione a Rivera: trattiamo.
Sánchez ha un’altra ragione di tranquillità: ormai è convinto che comunque vada il suo governo si farà, e considerando come è fatto il sistema spagnolo potrebbe aver ragione. Quando un candidato si sottopone al voto di fiducia, infatti, se nella prima votazione non ottiene la maggioranza assoluta può comunque ottenere l’incarico in una seconda votazione, a maggioranza semplice. Contando che difficilmente Podemos si rifiuterà di sostenere il socialista e che alcuni partiti locali hanno già promesso il loro sostegno o astensione, per Sánchez non dovrebbe essere difficile formare un governo di minoranza.
Così, con Podemos indebolito dalla guerra interna e Ciudadanos divorato dal dubbio, Sánchez non vede ragione per agitarsi troppo, e sta fermo, in attesa che i suoi avversari si trasformino in potenziali alleati: il suo obiettivo principale – e improbabile – è Ciudadanos, con cui sarebbe interessante formare un governo di centrosinistra.
Curiosamente, la strategia dell’attesa era prediletta anche da Mariano Rajoy, predecessore di Sánchez al governo con il Partito popolare. Attendendo quatto e approfittando delle divisioni dei suoi avversari (tra cui c’era lo stesso Sánchez, che nel periodo più buio del Psoe ha preso la sua dose di coltellate) Rajoy è rimasto premier dal 2011 al 2018, ha superato la fase più dura della crisi del debito sovrano e ha riportato la Spagna a una crescita del pil di oltre il 3 per cento. Prima della fine del suo mandato è stato detronizzato da Sánchez con una manovra parlamentare, ma evidentemente anche il socialista ha compreso la validità della strategia del suo antico rivale.