C'è un blocco di potere arabo che decide politica e guerre sotto il nostro naso
Gestiscono la crisi brutale in Sudan e sono in rotta di collisione con noi in Libia. Per ora l’Italia ha scelto di ignorarli
Roma. Martedì sera attorno alle nove un bimotore della Petro Air, la compagnia libica che serve la compagnia nazionale petrolifera della Libia (Noc) è decollato dall’aeroporto di Ciampino e si è diretto a sud dall’altra parte del mare verso Tripoli. Non si sa chi ci fosse a bordo e con chi è venuto a parlare in Italia, ma questi voli discreti ancora continuano, del resto siamo i più vicini, abbiamo investimenti energetici importanti e per tre anni i governi italiani hanno sponsorizzato il governo di Tripoli (adesso la posizione è meno chiara, il governo gialloverde sta provando a cavarsela con il cerchiobottismo). La sera dopo e quella dopo ancora, quindi giovedì, droni degli Emirati arabi uniti hanno bombardato con i missili le piste dello stesso aeroporto di Tripoli – che è a doppio uso, militare e civile.
Fonti militari del cosiddetto Esercito nazionale libico del generale Khalifa Haftar ieri hanno detto che il bombardamento è stato fatto contro “un velivolo turco” che era appena tornato da una missione contro i loro soldati appena a sud della capitale. C’è un conflitto per procura tra stati stranieri, in un’area su cui credevamo di avere la competenza. E non abbiamo ancora realizzato con l’attenzione che meriterebbe che in Libia la guerra è mossa dal formidabile blocco di potere formato da Arabia Saudita, Emirati arabi uniti ed Egitto (i primi due soprattutto), un terzetto di alleati che prende molte delle decisioni che contano di più in medio oriente e nel Nordafrica. E che le scelte che compiono si incrociano con i nostri affari e le nostre posizioni e spesso ci sono collisioni – da cui possiamo uscire perdenti.
In Libia gli alleati hanno appena smontato tre anni di diplomazia italiana e hanno spinto Haftar a lanciare l’offensiva contro Tripoli (che doveva durare tre giorni e invece è al terzo mese). In Sudan hanno deciso di bloccare la transizione chiesta dai manifestanti verso le elezioni e un nuovo potere civile. Il presidente egiziano Abdel Fattah al Sisi, il principe ereditario saudita Mohammed bin Salman e l’emiro degli Emirati arabi uniti, Mohammed bin Zayed, considerano le spinte verso la democrazia una minaccia, uno scenario poco controllabile che potrebbe degenerare e consegnare il potere nelle mani degli islamisti. Che abbiano ragione oppure no, si oppongono alla piazza e ai sit-in.
L’ultimo giorno di maggio i sauditi hanno invitato il generale che comanda – in modo temporaneo – il Sudan, Abdel Fattah al Burhan, per un incontro alla Mecca. Qualche giorno prima Al Burhan era stato al Cairo per incontrare il presidente egiziano, Abdel Fattah al Sisi, e ad Abu Dhabi per parlare con Bin Zayed e un suo vice era volato dai sauditi, dove poi è andato anche lui. Una donna sudanese che ha riconosciuto il generale alla Mecca gli ha gridato “madaniyah! madaniyah”, che è uno slogan della piazza e vuol dire “potere civile!” ed è la richiesta da parte dei manifestanti al potere militare che siano organizzate presto elezioni libere e che l’esercito ceda il potere al vincitore. Ma tre giorni dopo l’ultimo colloquio del generale nel giro degli egiziani, emiratini e sauditi, le milizie sudanesi hanno attaccato con brutalità i sit-in delle proteste e hanno tradito tutte le rassicurazioni che i militari (che sono rimasti a guardare) avevano dato fino a quel momento. La Cina, che ha molti interessi in Sudan, e la Russia, che prende sempre di default una posizione “ognuno si faccia i fatti propri”, hanno bloccato la risoluzione di condanna alle Nazioni Unite.
Il blocco del Golfo plasma gli avvenimenti o perlomeno ci prova con il peso dei suoi finanziamenti e con i suoi armamenti superiori, dalla Libia allo Yemen al Sudan – dove i soldati adesso usano gli stessi blindati che avevano ricevuto in dono dagli emiratini per combattere in Yemen (è tutta la stessa partita) e che adesso hanno portato a casa. Il New York Times, che riconosce il potere del blocco, ha dedicato a Bin Zayed un ritratto lunghissimo in cui si dice che un tempo chiedeva l’autorizzazione agli americani prima di ogni sua mossa, ora si limita a comunicare quello che sta per fare. In tutto questo, c’è da contare che nel Sudan violento esiste una rete forte dello Stato islamico. “Da anni usano il Sudan come retrovia della guerra in Libia, i combattenti andavano là per riposare – dice un esperto molto ben informato, Aaron Zelin, al Foglio – adesso potrebbero sfruttare qualsiasi opportunità e potrebbero trovare reclute fra i delusi che si aspettavano un cambiamento”.