Sado-sovranismo. Trump ci ha lasciati nei guai in Libia ma vuole che mandiamo soldati in Siria
Tre ragioni per dire no al presidente americano, che vuole le truppe italiane contro lo Stato islamico per rimediare a promesse impulsive
L’Amministrazione Trump chiede al governo italiano un contingente di soldati da mandare in Siria con compiti di “addestramento” – la richiesta non è ufficiale, ma c’è pressione da parte americana. Ci sono almeno tre ragioni per rispondere no. La prima è che la destinazione per le truppe sarebbe la Siria orientale, quel territorio vasto che parte dal confine con la Turchia e si allunga verso sud seguendo il corso del fiume Eufrate fino al confine con l’Iraq: è un triangolo enorme che le milizie curde hanno strappato allo Stato islamico in cinque anni di combattimenti, dalla resistenza nel cantone di Kobane fino al trionfo finale a Baghouz, ma è anche la zona dove lo Stato islamico è ancora più attivo. Il gruppo terrorista ha cessato di esistere come governo ed è tornato a essere un gruppo di fanatici specializzati nella guerriglia.
Il loro bollettino al Naba due giorni fa ha pubblicato i dati degli attacchi più recenti, nel giro di un mese nella Siria orientale sono stati più di cento. A metà marzo il loro portavoce, Abul Hassan al Muhajir, aveva annunciato in un audio che quella è la zona da dove riparte la guerra di riscatto dello Stato islamico dopo le sconfitte disastrose degli ultimi tre anni ed è così. Il capo del gruppo, Abu Bakr al Baghdadi, nel video uscito alla fine di aprile parla di “harb istinzaf”, guerra d’attrito, quindi fatta per dissanguare le truppe nemiche. Vuol dire trappole esplosive, cecchini, imboscate, attacchi notturni. Una vittoria più decisiva contro lo Stato islamico era a portata di mano, ma la situazione è stata trascurata – c’è stato l’annuncio del ritiro americano, l’ipotesi poco realistica di un intervento turco, si è pasticciato. In questo contesto, dirci che la missione italiana sarebbe soltanto di “addestramento” suona riduttivo – peraltro sarebbe addestramento a favore di combattenti curdi che sono in guerra da cinque anni e sono passati per battaglie durissime. Il Pentagono in Siria aveva costruito un meccanismo molto ben rodato e formato da forze speciali, milizie locali, appoggio aereo preciso e letale. Sostituirlo con un contingente di addestratori italiani sarebbe una mossa debole.
Se i militari italiani partissero per la Siria – assieme a contingenti di altri paesi come Francia e Regno Unito, che ricevono la stessa pressione – sarebbe per rimpiazzare i duemila soldati americani che Donald Trump vuole riportare a casa come annunciò a metà dicembre 2018. Lui aveva ordinato che il ritiro fosse completato entro il 18 gennaio, ma poi i generali del Pentagono devono averlo convinto ad aspettare perché il ritiro non c’è ancora stato. Trump lo aveva promesso, adesso non vuole fare la figura del presidente che prima fa annunci spettacolari e poi si rimangia quello che ha detto – anzi quello che ha twittato.
E qui arriva la seconda ragione. I nazionalisti-sovranisti hanno abolito la categoria buonista delle alleanze internazionali, quindi c’è da chiedersi perché mai dovremmo aiutare Trump a mantenere la promessa del ritiro dalla Siria – fatta in modo avventato al telefono con il presidente turco Erdogan – mentre l’Amministrazione americana dà il suo consenso a una guerra civile a Tripoli, davanti alle nostre coste. Trump ha telefonato al generale libico Haftar e lo ha incoraggiato, quando invece avrebbe dovuto intimargli di fermare subito l’offensiva contro la capitale della Libia, cessare la guerra civile che ormai è al quarto mese e tornare per quanto possibile a negoziare. Trump a luglio 2018 aveva persino nominato il premier italiano Conte come “responsabile d’area” per quel che riguarda il dossier libico, salvo poi dimenticarsene. Tutte le conseguenze dello scempio libico coinvolgono l’Italia da vicino, perché dovremmo occuparci di Siria se Trump – che potrebbe fermare Haftar con un tweet – lascia correre la situazione in Libia verso il disastro?
La terza ragione è che non si mandano soldati stranieri in un’area così difficile senza un piano a lungo termine, senza un’idea d’insieme, senza una visione di cosa si vuole ottenere in Siria. Che cosa sarà delle milizie curde? Chi governerà quei territori? Come ci si rapporta con il presidente siriano Bashar el Assad e il suo regime, sorretto da Russia e Iran? Nel giro di due anni quali passi saranno fatti per riportare un minimo di stabilità? E da qui a cinque anni? Il presidente americano Donald Trump può fare accordi al telefono con Erdogan e promesse via twitter agli americani, ma per portare soldati italiani in Siria c’è bisogno di motivazioni più solide di queste.