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Il grande bluff russo

Micol Flammini

Lo scrittore Peter Pomerantsev ci racconta come Putin ha costruito un potere che non c’è. Prima in televisione poi su internet

Roma. Peter Pomerantsev è uno scrittore, ha lavorato anche per la televisione, ha realizzato documentari e oggi è docente alla London School of Economics. E’ vissuto tra l’est e l’ovest, tra la Gran Bretagna e la Germania, poi in Russia, dove è nato, ma allora si chiamava Unione sovietica. Lo incontriamo a un evento che l’associazione Civita ha organizzato assieme al think tank Volta, lui fissa la cupola barocca della chiesa del Santissimo nome di Maria al Foro di Traiano e dice: “Mia figlia ha dodici anni, quando siamo stati a Parigi ci chiedeva di Disneyland, a Roma invece è rimasta impressionata”. I genitori di Pomerantsev se ne andarono dall’Unione sovietica poco dopo la sua nascita, lui, Igor, scrittore accusato di contrabbandare letteratura contro il regime, lei, Lina, produttrice di documentari tra i quali “Gulag”. Prima la Germania dell’est, poi Monaco, infine Londra, dove Pomerantsev è cresciuto parlando il russo casalingo degli stranieri, per sua stessa ammissione. Il suo ultimo libro “Niente è vero, tutto è possibile” (Minimum fax) è dedicato alla tv e a quei dieci anni trascorsi a Mosca, dove ha lavorato come regista, creatore di programmi e ha anche conosciuto la Russia. La nazionalità è una cosa che si consuma, deperisce nel tempo e nello spazio e lui, sarà stato l’accento, i modi, la cultura respirata, il chiamarsi Peter e non Piotr, per tutto il libro è l’inglese. “Erano i primi anni di Vladimir Putin, che io non chiamo mai con il suo nome nel libro, mi riferisco a lui come presidente, tutto era nuovo e questa novità era molto difficile da comprendere”. Tutto iniziava a crescere sotto forma di clan, c’era un elemento sistemico, gli oligarchi iniziavano a imporsi e Vladimir Putin doveva ricreare un mondo. “Aveva visto che era stata la televisione a creare e a salvare Eltsin. Quando è arrivato al potere dopo le elezioni del 1999 la prima cosa che ha fatto non è stato mettere le mani sul petrolio o sulla sicurezza. Ha messo le mani sull’informazione, sulla televisione, prima di assicurarsi le risorse economiche e finanziarie”. Pomerantsev ha studiato la storia del paese attraverso i media, attraverso quell’edificio enorme che è l’Ostankino, “il centro di produzione televisiva grande quanto cinque campi da calcio che costituisce l’ariete della propaganda”. La televisione inizia a creare il putinismo, “il modello è stato Berlusconi – ci dice lo scrittore – erano già amici e tutti sanno che fu Berlusconi a dirgli che se una cosa non è in televisione non esiste”. Per creare il putinismo, c’era bisogno di creare anche i suoi oppositori ma questo nuovo potere aveva un compito, doveva riuscire a non diventare noioso. Così la Russia si è trasformata in un immenso reality show e con gli anni l’ossessione del Cremlino per l’informazione è cresciuta. “La Russia è sempre stata molto attenta alla propaganda, dai tempi dell’Unione sovietica non ha mai smesso di averne cura, chi se ne occupava ha sempre avuto un ruolo di rilievo. Possedere la televisione e l’informazione vuol dire possedere il potere reale, ossia l’immagine che tu vuoi dare del tuo potere”. Vladimir Putin lo ha capito subito, la Russia riesce a sembrare una superpotenza anche se non lo è, ma si è saputa presentare come tale, “ha creato un simulacro del suo potere”. Il presidente russo ha anche creato uno strano ciclo storico, è tornato indietro, ha ricucito la rottura con l’Unione sovietica, “ha riportato il simbolismo, l’orgoglio, e ha instaurato anche quella strana concezione del potere che hanno i russi: chi ti governa può farti del male, è una stramba deificazione di chi tortura, un processo insano, ovvio”. Tutto questo è stato possibile anche perché in Russia un giornalismo forte non è mai riuscito a imporsi, è sempre stato debole, ieri come oggi. E’ un mestiere complicato, come ha dimostrato il caso di Ivan Golunov, il giornalista arrestato la scorsa settimana e rilasciato dopo una protesta tenace e organizzata da parte non soltanto della popolazione ma anche degli altri media. “Non tutto dipende dal Cremlino, a volte ci sono decisioni che vengono prese a livello intermedio. Se fosse stato Putin a volerlo arrestare le cose sarebbero andate diversamente. Le inchieste di Golunov probabilmente avevano infastidito qualche burocrate di medio livello. Il potere si gioca su vari livelli: c’è il livello più alto, Putin che fa da arbitro di interessi divergenti. Non è uno stato totalitario”.

   

Dopo quindici anni l’attenzione si è spostata dai media a internet. Tutto è diventato più grande, ci sono le proteste di massa, la televisione non conta più, o conta meno, e se vuole ricreare la sua potenza, il Cremlino ha bisogno di internet.

   

“Nazionalizzare la rete da un punto di vista tecnologico è molto complicato, così mi dicono, ma se sai che esiste un internet russo sai che dietro c’è il governo che può controllare cosa scrivi e condividi. Sai che per un articolo a favore dell’Ucraina puoi finire in prigione, serve a intimidire”. All’annuncio di una rete sul modello cinese, i russi hanno reagito con proteste e cortei, soprattutto i più giovani. Il consenso nei confronti del capo del Cremlino sta scivolando sempre più verso il basso, a livelli mai raggiunti in precedenza e se davvero la sua intenzione è perpetuare il potere, prendere internet e nazionalizzarlo non è la strada giusta. Peter Pomerantsev ci pone di fronte a un paradosso, una crisi postmoderna della Russia tesa fra nostalgia e futuro: “Facciamo un passo indietro, Putin deve riuscire a bilanciare tra paranoia e il desiderio dei russi di avere uno stile di vita occidentale. In realtà i russi ormai sono già globalizzati. Un esempio: quando il Cremlino bandì i voli per la Turchia, i russi si arrabbiarono molto, volevano viaggiare e non erano disposti a rinunciare alla loro possibilità di muoversi, andare in vacanza. I voli sono tornati, in fretta. Il capo del Cremlino deve tenere presente queste necessità se non vuole soccombere. Non è democrazia, ma è un regime ossessionato dall’opinione pubblica e questa è manipolabile con l’informazione”. La propaganda sui social può essere più forte perché su Facebook e Twitter le persone possono essere targettizzate individualmente: “Internet ha aperto vari livelli di sorveglianza e manipolazione, quindi ha molti vantaggi”.

   

Una delle doti che Peter Pomerantsev riconosce a Vladimir Putin e al putinismo è la sua capacità di generare prodotti di marketing, Putin stesso è un prodotto di marketing, la Russia di Putin è un prodotto di marketing. Il presidente russo è stato in grado di vendersi come liberista con i liberisti, nazionalista con i nazionalisti, socialdemocratico con i socialdemocratici. Così è stato per i primi anni della sua presidenza, “se l’Unione sovietica era un monolite, la nuova Russia doveva essere tutto il contrario, è questo il motivo per cui il capo del Cremlino riesce a piacere ai Salvini e ai Corbyn”. E internet serve anche a questo, a vendersi. Negli ultimi anni Mosca ha messo su un impero in fatto di soft power, della capacità di intrufolarsi nelle questioni estere, e tutto è avvenuto su internet, dove per prima ha capito come avrebbe potuto usare a suo favore i social media. “Che ad esempio nelle elezioni americane ci sia stato un intervento della Russia è evidente, è dibattuto invece quale sia stato l’effetto di questa campagna. Qualcuno, come Kathleen Hall Jamieson, una degli accademici più importanti del settore, dice che l’effetto dei russi sulla vittoria di Trump è stato determinante, anche se numericamente può aver spostato lo 0,1 per cento. Altri invece sostengono il contrario. Ma è una conversazione senza fine, la stessa che negli anni passati veniva fatta sulla pubblicità ad esempio”. Al di là delle tensioni con la Russia ora la battaglia che si è aperta è quella tra governi e social media e cosa dovranno fare i colossi della rete per limitare la disinformazione: “E’ questa adesso la questione principale, le proposte sono tante, la regolamentazione ci sarà ma la vera domanda è se sarà una regolamentazione intelligente. Ad esempio in Germania c’è una legge che impone alle compagnie di controllare ogni contenuto e questo è assurdo. Ogni secondo vengono prodotti tali quantità di contenuti e anche di sciocchezze, e a un certo punto viene da dire chi se ne frega se la gente scrive cavolate su Facebook. Su internet le persone si comportano come al bar, quando pensiamo a un bar magari pensiamo che possiamo limitare l’idiozia delle persone limitando gli alcolici. Su internet è diverso, dobbiamo pensare alla sua architettura, ma dobbiamo farlo a livello costruttivo e non punitivo come in Germania, bisogna pensare ai diritti degli utenti, garantire la trasparenza e fare in modo che sia subito chiaro per esempio, che quel contenuto è di un bot russo”. Secondo Pomerantsev ora l’architettura di internet ci spinge dentro delle bolle, ci nasconde dentro tasche di contenuto, invece gli utenti devono essere guidati attraverso una giusta dieta di informazioni.

    

La Russia continuerà a cercare la sua strada tra le maglie di internet, a livello internazionale però la visione che di se stessa era riuscita a proiettare nei primi anni del putinismo sta sfiorendo e anche in casa il putinismo è in crisi. Negli anni in cui Peter Pomerantsev è stato in Russia, il fatto che fosse inglese destava curiosità, apriva anche qualche porta. “Dire sono di Londra funzionava come apriti sesamo”, scrive nel suo libro. Quando gli chiediamo se è ancora così, con il pensiero ai fatti di Salisbury, Pomerantsev sorride: “In ČCechov le tre sorelle sospirano dicendo ‘A Mosca, a Mosca’, sognando di trasferirsi. Ora le persone dicono ‘A Londra, a Londra’. Durante l’Unione sovietica le persone erano ossessionate dalla letteratura inglese. Tutti in realtà vorrebbero essere di Londra, ma meglio non dirlo, ora va di moda il nazionalismo”.