Per Salvini Palazzo Chigi passa dalla Casa Bianca
Il vicepremier a Washington in cerca della benedizione di Trump. Le ombre cinesi
Roma. Sarà per l’ebbrezza dell’evento inedito, sarà magari perché l’esasperazione fa spesso confondere le speranze con la realtà, sta di fatto che tra i ministri della Lega – sempre più, e sempre più unanimemente, desiderosi di una rottura della maggioranza gialloverde – la trasferta americana di Matteo Salvini viene descritta così: “Il viaggio per farlo convincere”. Potrebbe cioè arrivare l’alta diplomazia americana laddove nessuno tra gli alti esponenti del Carroccio, e su tutti Giancarlo Giorgetti, ha saputo spingersi: e cioè riuscire a persuadere il ministro dell’Interno a porre fine a questa agonia del cambiamento, e passare all’incasso elettorale in autunno attraverso elezioni anticipate. E a ben guardare non è solo tra i leghisti che si ragiona in questi termini, su quel che potrebbe derivare dai colloqui del “Capitano” con Mike Pompeo e Mike Pence, se è vero che anche Adolfo Urso, senatore di Fratelli d’Italia e vicepresidente del Copasir, uno che queste dinamiche le conosce bene, dice che Salvini “può partire vicepremier e tornare candidato a guida di una coalizione”.
Ipotesi che però Riccardo Molinari liquida come “improbabile”, all’uscita da un consiglio federale in Via Bellerio dove, racconta, “si è discusso di flat tax e di cantieri, di autonomia e di riforma della giustizia: insomma di come mandarlo avanti, questo governo, e non di come farlo saltare”.
Di certo, a fomentare l’ansia per il viaggio di domenica e lunedì a Washington, contribuisce anche il ritardo con cui Salvini si è deciso al grande evento. Sembrava tutto pronto già per fine febbraio, quando il capo della Lega – anche grazie al lavoro preparatorio di Armando Picchi, sottosegretario agli Esteri – era atteso per la Conferenza dei conservatori. Non se ne fece niente, al dunque, e al posto di Salvini in America andò Giorgetti: il quale non poco si è speso, poi, perché finalmente anche il suo leader, sempre dedito a presidiare il fortino del suo consenso elettorale in giro per le piazze italiane, si decidesse ad andare negli Usa. Non è stato facile, se è vero che una decina di giorni fa dal Dipartimento di stato è stata fatta pervenire a Palazzo Chigi una certa delusione, per i continui slittamenti del viaggio.
Poi, alla fine, Salvini si è deciso. E con lo zelo eccessivo di chi sa che deve farsi forse perdonare qualcosa, ha deciso di testimoniare la sua conversione filoatlantica disertando la cena a Villa Abamelek organizzata martedì sera dall’ambasciata russa, lasciando cadere nel vuoto, senza neppure una risposta ufficiale, l’invito che gli era stato recapitato, e limitandosi a mandare all’evento solo alcuni dei suoi fedelissimi: da Claudio Borghi, presidente della commissione Bilancio della Camera, a Claudio D’Amico e Lorenzo Bernasconi, consigliere strategico e segretario particolare del vicepremier a Palazzo Chigi, entrambi – specie il primo – di esplicite simpatie filoputiniane. (C’era anche Federico Arata, ignaro di quanto sarebbe accaduto l’indomani a suo padre e suo fratello, e del fatto che, all’apprendere dell’arresto dei suoi famigliari, i grillini avrebbero subito avviato una scrupolosa ricerca per capire se scatenare l’offensiva mediatica per quel suo contratto al Dipartimento economico di Palazzo Chigi, salvo poi restare delusi nell’apprendere che quel contratto è decaduto).
Salvini invece no, non c’era: ha preferito recarsi, con la sua Francesca, alla festa per la Regina allestita dall’ambasciata inglese. E anzi, pare stia pensando perfino di rinunciare a vedere Vladimir Putin, che verrà in Italia a inizio luglio.
Uno scrupolo pure questo esagerato, dal momento che l’Amministrazione Trump non è alle relazioni di Roma con Mosca, che guarda con sospetto, ma a quelle con la Cina. E infatti ciò su cui più di ogni altra cosa si concentreranno le conversazioni, in quel di Washington, sarà la delicata questione del 5G, e la necessità di predisporsi all’utilizzo della cosiddetta “golden power rafforzata” da parte del nostro governo, per difendere gli interessi nazionali – e non solo – e limitare le mire dei colossi cinesi dell’hi-tech come Huawei e Zte, a cui già troppo spazio di manovra il nostro paese ha concesso, a giudizio degli americani, finora. Da quello dipenderà, in maniera più o meno diretta, anche un sostegno americano sulla sfida più difficile del governo italiano: quella che ha a che vedere con la vendita dei titoli di stato. “Sul 5G l’Amministrazione Trump vuole avere da Salvini la garanzia che le raccomandazioni fatte a Giorgetti a febbraio sono state recepite fino in fondo”, dice chi ha contribuito alla preparazione del viaggio, “anche in vista del Consiglio supremo di Difesa, in programma a fine giugno al Quirinale”.
Ma è chiaro che, al di là dei singoli dossier, la trasferta sarà anche l’occasione, per Salvini, per accreditarsi in prima persona di fronte alla diplomazia di Washington, con la quale finora ha avuto solo contatti preliminari. Vedrà in mattinata Mike Pompeo, il segretario di stato nella sede del Dipartimento; col vicepresidente Mike Pence, invece, si incontrerà nel primo pomeriggio alla Casa Bianca. Manca, certo, ciò a cui Salvini ambiva di più: una stretta di mano con Trump che fungesse da investitura suprema e archiviasse le polemiche per quel fuggevole incontro dell’aprile del 2016, poi negato dall’allora candidato repubblicano alla Casa Bianca, per quella foto strappata – dicono i maligni – dopo decine di minuti di fila e qualche preghiera, come l’ultimo dei fan, al termine di una photo opportunity. Nello staff del vicepremier ci hanno provato fino all’ultimo, pare, a prolungare il viaggio fino a Orlando, dove martedì Trump inaugurerà la sua campagna per la riconferma, ma alla fine il tutto si è rivelato impossibile.
“Essere ricevuto nello stesso giorno dal vicepresidente e dal segretario di stato non è comunque una cosa da tutti”, gongolano i leghisti. E a ragione: l’occasione, per Salvini, è sicuramente importante. Sarà una sorta di esame di maturità: alla Casa Bianca vogliono testare il livello di affidabilità del leader di quella che, al momento, viene ritenuta l’unica forza politica su cui fare riferimento in Italia. Più che il “viaggio per convincerlo”, insomma, sarà il viaggio per farlo conoscere. Il resto si vedrà.