La rivoluzione dei libri e del corpo per strada
La guerra civile e le energie finalmente libere di una moltitudine che ogni venerdì si mette in scena. Selma Hellal, editrice coraggiosa, racconta la sua Algeria e “l’esperienza meravigliosa” di portare la letteratura in giro per il paese
Nella parte alta di Algeri, alla fine di una piccola strada a senso unico ripidissima, che parte da un parco intitolato a Olof Palme e termina in un grande boulevard, c’è la sede delle Éditions Barzakh. E’ la casa editrice indipendente più importante del paese, pubblica scrittori affermati come Kamel Daoud e Adlène Meddi, è uno dei centri culturali che rendono Algeri più viva e meno dipendente dalla sua vocazione, che è quella di essere un porto, una città industriale, un centro amministrativo.
La sede si affaccia sulla strada, al primo piano: quattro o cinque stanze, molti libri, locandine, fotografie, mappe. Selma Hellal è una bella donna, con un sorriso malinconico e degli occhi scuri che però le illuminano il viso; trasmette energia e allo stesso tempo stanchezza, la stanchezza di chi ha aspettato a lungo una rivoluzione, e ora che la vede e la vive non sa bene quanto essere ottimista voglia dire osare, superare il limite. La incontriamo nella stanza delle riunioni, dove ci sono un tavolo con delle sedie e scaffali colmi di libri su tutte le pareti tranne una, dove campeggia un’enorme carta fisica dell’Algeria. E’ lei che, insieme al compagno Sofiane Hadjadj, ha fondato Barzakh, all’inizio degli anni Duemila, quando il paese si stava lentamente e faticosamente riprendendo dalla “décennie noire”, il decennio nero, la guerra fratricida che oppose il governo algerino a diversi gruppi islamisti, causò centinaia di migliaia di vittime, decine di migliaia di espatri, e soprattutto rappresentò e rappresenta un trauma dal quale l’Algeria ancora non s’è ripresa completamente. Con Selma Hellal parliamo di politica, come con tutti: è difficile incontrare oggi un algerino che non abbia voglia di raccontare quello che sta succedendo nel paese, Algeri è in subbuglio, a ogni angolo qualcuno discute di politica e attira i passanti che, durante il ramadan, non hanno altro pensiero che non sia evitare di perdere anche soltanto un minuto della nuova aria, della nuova libertà che si respira nelle strade. Capannelli si fanno e si disfano, si cammina e ovunque ci si volti si vede un popolo che si riappropria dello spazio pubblico col sorriso, con la convinzione che sì, ce la può fare, senza violenza, senza tradimenti.
Selma Hellal (© Kays Djilali, 2014)
Selma Hellal sente tutto questo come fosse un’emozione personale, e comincia a raccontarci com’è nato il suo piccolo contributo alla cultura algerina: “Quando abbiamo cominciato, all’inizio degli anni Duemila, non è stato molto complicato, il contesto era particolare, uscivamo da una guerra civile, e la cultura era un campo devastato come un campo devastato era il paese. Tuttavia, come si può intuire, le macerie permettono una ricostruzione più rapida, soprattutto perché la situazione precedente era invece molto sfavorevole alle professioni creative. Abbiamo trovato moltissime firme pronte a pubblicare, è stato facile occupare lo spazio, cominciare a creare una scuderia di scrittori. Dopo una guerra civile si liberano delle energie, è il momento di dire, di comunicare: la creatività prolifera e nel mondo della letteratura più che in altri mondi”.
E adesso, che tipo di energie libera la rivoluzione? Come si pone un’intellettuale che ha sognato a lungo un momento di civismo così profondo, lo osserva adesso da vicino, ne vede i limiti e le potenzialità con occhio clinico, ma ne è allo stesso tempo parte e protagonista? Selma Hellal sorride, cerca di spiegare cosa ritrova, lei, nei venerdì di Algeri: “E’ una rivoluzione, se le piace il termine, ma quello che vedo io è la moltitudine che si mette in scena. Ciò che unisce le persone in piazza, ogni venerdì, non è soltanto la rivendicazione di un obiettivo concreto, la democrazia. Ma è il sentimento di essere stati umiliati, tagliati fuori dallo spazio pubblico. L’Algeria sta sperimentando la comunità, la dimensione collettiva che è stata talmente umiliata e vilipesa da risultarle quasi estranea. A un certo punto questa fase finirà, arriverà il momento della concretezza, ma per adesso il venerdì è questo: è ritrovarsi più che rivendicare, occupare lo spazio pubblico, appropriarsene, mostrare i corpi al potere ma anche a noi stessi. Il corpo per strada, questo è il primo passo della nostra rivoluzione”.
La maggior parte delle persone che parla del governo di Abdelaziz Bouteflika, e anche di chi guida il paese in questa fase di transizione, utilizza delle parole eloquenti. Chi governa è “il potere”, “il sistema”, “il regime”, governo è un concetto che non viene mai citato, che non compare, come fosse riduttivo, incapace di descrivere la pervasività raggiunta dallo stato algerino. Viene dunque spontaneo di chiedere, a chi come Selma Hellal, che di mestiere fa l’editrice, scova talenti e ne pubblica gli scritti, o contatta scrittori affermati per poterne acquistare i diritti, che vuol dire lavorare in un “regime”. La risposta è forse sorprendente, ma indicativa: “La letteratura è talmente screditata dal potere e ha un posto talmente marginale nell’immaginario del cittadino comune, che non è considerata pericolosa. E quindi la nostra casa editrice non è mai stata oggetto di particolare attenzione da parte di Bouteflika, al contrario di quanto accaduto in Tunisia, dove il regime di Ben Ali non consentiva alcuna pubblicazione senza censura preventiva. Noi non ne abbiamo subìta nessuna, per il potere il potenziale sovversivo è quasi nullo. Abbiamo potuto fare e dire praticamente tutto quello che volevamo, abbiamo pubblicato dei testi insolenti, impertinenti, urticanti, anche durante gli anni di più dura repressione. Insomma la letteratura non è trattata come la stampa, la radio o la televisione”.
D’altronde l’idea che la letteratura, l’immaginazione, la creatività siano solo mezzi e rifugi per chi vuole contestare il potere non nasce certo in Algeria: da sempre i libri sono il mezzo per dire ciò che in un articolo di giornale non è consentito. Chiediamo come mai il mercato sia così ristretto, tanto da suscitare indifferenza, un’ammissione che arriva inaspettata da parte di chi vende libri: “Un pubblico che ha fame di lettura esiste, ha più di 50 anni, ha conosciuto un sistema scolastico strutturato che gli ha insegnato cos’è la potenza della letteratura. Ed è un pubblico che ha capacità di spendere, parliamo di persone che frequentano le librerie, per quanto poche siano. Al contrario, i giovani, che sono numerosi, sono delle vittime del sistema educativo che sta fallendo: spesso chi arriva al primo anno di Lettere, quindi una facoltà che crediamo attragga chi ha già questo tipo di interessi, non ha mai letto un romanzo; i libri se li possono permettere in pochi e i ragazzi al liceo hanno letto soltanto degli estratti. Non hanno idea di cosa voglia dire il libro come oggetto, come mezzo per raggiungere la libertà, per allenare l’immaginazione. Queste persone sono desiderose di leggere e scoprire, possono comprare libri se trovano dei prezzi competitivi. Ma non vanno in libreria. La sfida è ‘captare’ questo pubblico, andarlo a prendere senza aspettare che per magia si rivolga a noi acquisendo un’abitudine che non ha mai avuto, e che spesso non hanno nemmeno i genitori”.
Selma Hellal prende una pausa, sospira, come se volesse mettere in ordine le idee. Si percepisce che parlare della sua casa editrice dal punto di vista aziendale la affatica: “Il problema è che questa necessità ci allontana dalla nostra vocazione di editori”, dice. Già, ma che fa un editore? “Lavora sui testi grezzi che gli vengono inviati, cerca degli autori giovani e promettenti, prova a convincere scrittori già affermati a pubblicare ancora, si prende del tempo per rileggere un capitolo e capire come farlo rendere al meglio. Magari decide di farlo riscrivere completamente, o di cambiargli collocazione. Insomma, è un artigiano della parola”, risponde l’editrice, che poi ci racconta lo stato disastroso della rete di distribuzione e di vendita: “Non esiste nulla di simile in Algeria, e le librerie private che fanno un buon lavoro sono una decina, una decina per il paese più grande dell’Africa che è abitato da più di 40 milioni di persone”. E quindi come si fa? “Si fa, ed è anche un’esperienza meravigliosa. Ci si mette in macchina con l’autore, si caricano i libri nel portabagagli, e si guida per partecipare ai dibattiti organizzati dalle associazioni, dai caffè letterari. E’ appassionante, ma faticosissimo. Una vita così, a pieno regime, per forza di cose vi distoglie dal ruolo primario di cui parlavamo prima. Ma, come si dice, il faut faire avec”.
Bisogna adattarsi. Il 22 febbraio, data della prima manifestazione contro il quinto mandato di Abdelaziz Bouteflika, ha sorpreso in molti, l’Algeria sembrava un paese assopito, ancora traumatizzato dal decennio nero e troppo fragile per avere la forza di scendere in piazza. Che succede se il potere reagisce? La paura di cominciare una manifestazione tra le bandiere e concluderla con un bagno di sangue e un’altra guerra civile era troppo grande. “E infatti siamo stati stupefatti, dice convinta Selma Hellal, io e il mio entourage, il mondo culturale algerino per intenderci, abbiamo vissuto il 22 febbraio e i venerdì successivi come una lezione d’umiltà. Eravamo presi in una spirale di autocommiserazione, di perdita di stima in noi stessi. Credevamo di non essere più capaci di dare impulso al cambiamento, ci eravamo ritirati nel nostro microcosmo, finendo forse per essere autoreferenziali. Certo, ci dicevamo, contribuiamo a far circolare delle voci singolari, sovversive, che scrivono e difendono proposte alternative per il paese. Ma nel clima di apatia che si viveva qui prima del 22 febbraio la giunzione tra la letteratura e la coscienza cittadina si stava sfaldando”.
Per farci capire meglio il concetto, come presa da un’illuminazione, si avvicina allo scaffale colmo di libri e ce ne porge uno. E’ un piccolo romanzo dalla copertina color terra di Siena, con una carcassa di un maggiolone bianco abbandonato all’angolo di una strada. L’autore è Chawki Amari, vignettista, scrittore e giornalista di El Watan, uno dei quotidiani più importanti del paese. Amari ha cominciato un percorso che potremmo definire calviniano, simile a quello che lo scrittore italiano intraprese per le sue lezioni americane, un ciclo di conferenze che Calvino aveva intenzione di tenere negli Stati Uniti nel 1985, senza purtroppo riuscirvi. Leggerezza, Rapidità, Esattezza, Visibilità, Molteplicità, Coerenza. La sua casa editrice americana pubblicò i testi nel 1988 con il titolo Six Memos for the Next Millennium, mentre in Italia il libro è conosciuto come Lezioni americane. Parliamo anche di Calvino, prima che Selma Hellal ci spieghi perché questo libro è paradigmatico dell’Algeria pre 22 febbraio: “Amari sta scrivendo un ciclo di quattro romanzi su quattro temi: la gravità, il caso, l’energia, e l’inconscio. Questo è il secondo, si intitola Balak, che in arabo vuol dire caso, ma anche pericolo, un qualcosa di cui bisogna fare attenzione. Parla di rivoluzione, una rivoluzione nata per caso, bellissima, pacifica, colorata, che coinvolge tutti. Simile a quella che stiamo vivendo oggi e poi, s’immagini, l’abbiamo pubblicato nell’ottobre 2018, sembra quasi una profezia. Però, alla fine, questa rivoluzione fallisce. Vede, nemmeno in letteratura abbiamo osato tanto, nemmeno nella terra della libertà per definizione, la nostra immaginazione, abbiamo avuto l’ardire di raccontare una rivoluzione che trionfa”.
Insomma, sostiene Selma Hellal, forse Éditions Barzakh era diventato un luogo di rifugio per gli spiriti colti e oppressi, una camera di compensazione intima per chi nella rivoluzione non aveva più la forza e il coraggio per credere. La sua constatazione è amara, ma anche consapevole della difficoltà che può avere una minoranza a incidere nei processi politici: “In maniera opportunistica potrei dirle che sì, abbiamo protetto questi spiriti che ora stanno contribuendo a questo periodo meraviglioso, perché i nostri testi contengono una forza libertaria e dirompente, che rivedo quando cammino per le strade della città. Non me la sento tuttavia di rivendicare alcunché: i nostri appelli alla libertà di pensiero e alla libertà di pensare in modo critico avrebbero potuto continuare per anni senza provocare niente più che indignazione. Sarei disonesta a raccontarle qualcosa di diverso da questo. La rivoluzione la fa il popolo in piazza”.
La conversazione si sposta sul grande assente dal dibattito pubblico, l’ombra che nei paesi a maggioranza musulmana può arrivare a rovinare tutto. L’islamismo radicale. Teme, Selma Hellal, di ritrovarsi in uno scenario dove, dopo avere sconfitto il potere, si debba fare i conti con il jihad? “Non ho paura dell’emersione dell’islamismo radicale, quella stagione è ahimè già arrivata, ma siamo riusciti a superarla, pur pagando un tributo altissimo. Ciò che mi preoccupa è l’islamizzazione della società, un fenomeno contro cui bisogna battersi anche se non è facile. Quando parlo di islamizzazione non intendo un’ondata di attentati seguiti da una repressione che genera altri attentati, intendo qualcosa di più subdolo. La società algerina è esposta a una serie di concetti pericolosi, come il machismo, le convenzioni sociali, l’ignoranza dei veri precetti dell’islam, il conservatorismo. Tutto questo rischia di intorbidire le conquiste, di impedire che si sviluppino la libertà e l’autonomia di pensiero. Ecco quello che temo”.
Eppure l’ottimismo, quando si passeggia per Algeri, è il sentimento prevalente che vi investe, e investirebbe chiunque. Tutto sta cambiando, e quindi tutto è possibile: perché mai dovrebbe andare a finire male? Selma Hellal è d’accordo, si percepisce la sua voglia di sperare che sì, l’Algeria ce la farà, diventerà un paese dove si può essere felici. Un po’ come l’Europa. “Non voglio cantare vittoria prima del tempo, ma se mi guardo indietro mi rendo conto di quanto sia enorme quello che abbiamo ottenuto. Queste manifestazioni permanenti, pacifiche, segnano un punto di non ritorno, come si fa a tornare a ciò che c’era prima? Davanti a noi abbiamo delle scelte complicate, e probabilmente su molti temi ci divideremo; ma la democrazia è proprio questo: essere liberi di manifestare il proprio disaccordo, metterlo in scena, rivendicarlo. Non sappiamo ancora farlo, dal sistema monolitico con un solo partito e un solo pensiero nato dalla vittoria della guerra di liberazione degli anni Sessanta, siamo piombati nella guerra civile degli anni Novanta. Quella guerra civile che scoppia quando il disaccordo diventa fratricida, quando le divergenze sono irriducibili e non si riescono a canalizzare. E’ venuto il momento di apprendere che si può essere in disaccordo anche in tempo di pace”.