La vanità s'è fatta giudice
Oggi al Senato brasiliano c’è Sérgio Moro, il paladino delle intercettazioni finito intercettato. La sua storia, la sua difesa e quel che qui in Italia si omette su di lui
Attenzione, è in arrivo il colpo di spugna! Eccolo qua il contropiede del paladino delle intercettazioni intercettato. Attaccano me, Sérgio Moro, per fermare le inchieste sulla corruzione, per scarcerare le centinaia di politici e imprenditori che, da giudice, ho sbattuto in galera. Sono stato io a far sì che, per la prima volta nella storia del Brasile, la legge fosse uguale per tutti. Ho fatto arrestare ricchi e potenti. Ho preparato un pacchetto anticrimine che spazzerà via i corrotti. E ora un giornale on line amico dei ladri, forse in mano a servizi stranieri, mi accusa di non essere stato, da magistrato, un giudice imparziale. Difendetemi, se volete difendere la guerra ai criminali.
Questa la strategia mediatica del quarantasettenne super ministro della Giustizia del Brasile, finito nei guai per le rivelazioni di Intercept Brasil, il sito dell’americano Glenn Greenwald, lo stesso del caso Snowden. La strategia è già dispiegata nella stampa e nelle tv di mezza America latina, dare un’occhiata ai principali giornali della vicina Argentina per credere. L’argomento usato è elementare. Mostrare prove della illeicità della condotta dell’ex giudice avrebbe l’obiettivo di affossare la Lava Jato, la Mani pulite brasiliana che ha raso al suolo i principali partiti, ridisegnato la geografia politica del Brasile e degli altri paesi lambiti dai rivoli dell’inchiesta. Il coro in suo favore dice: fermare la Lava Jato e le norme anticorruzione del ministro Moro è il fine di chi ha hackerato i telefonini dei pm che lavoravano al processo Lula e li ha passati al giornalista. Per questa ragione ogni giorno spunta qualcuno a difendere l’annullamento del processo all’ex presidente Lula da Silva e ad altri pericolosi banditi di minor calibro. E’ un teorema semplice, quindi funziona. Soprattutto in un paese in cui il 53 per cento dei votanti, in nome del bisogno di fare un po’ d’ordine, soltanto otto mesi fa ha scelto per la presidenza della Repubblica l’ex poliziotto di ultradestra Jair Bolsonaro che prometteva esplicitamente autoritarismo e militari al governo.
Indispettito, quasi incredulo e stupito, non ci sta a vedere gli screenshot del suo cellulare rimbalzare da un tg all’altro
Bisogna sforzarsi di capire la voglia di mascelle volitive al comando radicata in Brasile, se si vuol capire perché duecento milioni di persone in una delle più grandi democrazie del mondo si sono messe in mano prima ai repulisti della magistratura accettandone i metodi sommari e poi a un presidente pistolero. Indispettito, quasi incredulo e stupito, Sérgio Moro non ci sta a vedere gli screenshot del suo cellulare rimbalzare da un tg all’altro e superare in audience, per scalpore suscitato, le denunce di stupro a Neymar, l’altro eroe nazionale.
Ora che anche l’ultimo bagnino dell’ultima spiaggia brasiliana conosce a memoria le frasi di giubilo con cui, da giudice giudicante nel processo all’ex presidente Lula da Silva, Moro si congratulava con se stesso e con i suoi pm per veder il Partido dos trabalhadores (Pt), il partito di Lula, travolto dai processi, il ministro denuncia “l’azione criminale”, la violazione della sacrosanta segretezza delle sue conversazioni.
Quindi intercettare Dilma Rousseff quando era presidente della Repubblica, diffondere l’audio della telefonata in cui proponeva all’ex presidente Lula un incarico di governo per metterlo al riparo dalle azioni penali, era una azione doverosa. “Perché il popolo aveva il diritto di sapere”, ha detto Moro. Invece sputtanare lui che ordinava ai pm quali testimoni sentire, quali prove raccogliere – prove che poi, da giudicante, ha valutato essere sufficienti a condannare nel luglio 2017 Lula a 9 anni di carcere e a farlo arrestare togliendolo di mezzo dalla corsa alle presidenziali dell’ottobre 2018 in cui era favorito – è stata un’azione criminale il cui risultato non era di pubblico interesse.
Nel particolarissimo caso di Moro, secondo Moro, il popolo non aveva diritto di sapere. Nonostante quel comportamento sia vietato dalla Costituzione e sanzionato dal codice penale con un articolo, il 354, che sembra il suo ritratto. Descrive la fattispecie del “giudice sospetto”, quello che la difesa ha il diritto di ricusare. Nel suo personalissimo caso quelle rivelazioni, hackerate quindi illegali, nota lui, sarebbero dovute rimanere segrete.
Per comprendere, bisogna mettersi nei panni di Sérgio Moro. Non deve essere facile abituarsi a sentire folle oceaniche gridare “Salvaci!”, vedere maschere di te stesso vestito da Superman osannate in strada durante il Carnevale, ricevere premi ovunque, ritrovarsi in pochi anni, dall’ufficio da giudice di primo grado, ritratto in tutte le copertine delle riviste appese ai chioschi, santificato in una serie di culto su Netflix, infine Uomo forte del governo dei Duri con un posto pronto al Tribunale supremo, invocato come prossimo candidato alla presidenza della Repubblica. E riuscire a mantenere la testa a posto.
Soprattutto se sei un magistrato smanioso di emergere, sprofondato nell’anonima procura della Repubbica di quella piccola Svizzera brasiliana che è la città di Curitiba, in cui è vezzo comune considerare arruffone e primitivo il resto del paese e vantarsi di essere mezzi tedeschi. Soprattutto se sogni dai tempi del master ad Harvard di raddrizzare la schiena al Brasile e non consideri inopportuno che tua moglie avvocato, mentre tu firmi l’ordine d’arresto per il candidato Lula da Silva, posti sui social network valanghe di pubbliche incitazioni alla vittoria rivolte al candidato Bolsonaro.
Il principio tanto caro “il popolo deve sapere” ora per Moro non vale più. Ma in Brasile è radicata la voglia di mascelle volitive al comando
Ma il problema drammatico del Brasile è la penosa vanità di un giudice tanto accorto da disseminare di prove contro se stesso la chat di Telegram o la disponibilità del paese a mettersi nelle sue mani? E quella del resto del mondo a descriverlo come l’uomo della provvidenza senza star tanto ad approfondire, senza preoccuparsi quando in un’aula di tribunale si sente dire “o si concede elasticità all’ammissione di prove d’accusa e il debito valore alla prova indiziaria, o i crimini di alta lesività sociale non saranno mai puniti e la società ne soffrirà le conseguenze”?
C’era bisogno di veder hackerate le chat di Sérgio Moro con il coordinatore della pubblica accusa, Daltan Dallagnol – sentirli festeggiare il successo delle manifestazioni contro Dilma Rousseff nel 2013, ascoltarli pianificare come impedire una intervista a Lula prima del primo turno delle presidenziali del 2018 nel timore che potesse portargli voti e vedere come Moro raccomandasse ai pm di smontare nei giornali l’autodifesa di Lula al processo, definirla uno “showzinho” – per sapere che non può essere considerato giudice imparziale un giudice che prima fa arrestare il candidato favorito alle elezioni e poi accetta la nomina a ministro dal presidente che non sarebbe diventato tale senza quell’arresto? Di questa mostruosità, qui in Italia, s’è forse occupato qualcuno?
In Brasile lo scandalo ora è tale che il giornale Estadão, dalle cui colonne Moro ha sempre pontificato, ha chiesto in un duro editoriale le sue dimissioni. La rivista Veja, che era solita venerarlo come una pop star, l’accusa di aver “valicato inequivocabilmente il limite della decenza e della legalità”. Non ci vanno leggeri nemmeno alcuni degli undici giudici del Supremo, sollevati all’idea di non doversi ritrovare tra i piedi il prossimo anno, quando si libererà un posto nell’Olimpo della Alta Corte, quello che considerano un irritante ducetto borioso. Lui a dimettersi da ministro non ci pensa nemmeno e oggi andrà in Senato a spiegare perché, come sostiene, “la tradizione giuridica brasiliana non impedisce questi contatti personali tra giudici e pm”.
Bolsonaro per ora non lo scarica. I sondaggi d’opinione, per quel che valgono, dicono che il consenso verso Moro è in caduta ma è ancora lui il politico più amato. C’è poco da stupirsi. Una larga parte della società brasiliana – così come durante il boom economico dei governi del Pt, che era un boom di consumi non un boom industriale, ha tollerato controvoglia le quote riservate ai neri nelle università, così come non era entusiasta delle leggi a protezione delle colf perché sotto sotto fa comodo a quasi tutti avere camerieri che non osano andare in ferie – è ben contenta di dare carta bianca a personaggetti che s’atteggiano a sceriffi. Li vuole, li vota, perché non è meno autoritaria di loro. E’ una verità triste, ma è così.
Alcuni giornali che fino a ieri lo veneravano come una popstar oggi chiedono le sue dimissioni. Che Moro non ha intenzione di dare
Qui invece lo scandalo brasiliano è passato in sordina, come se fosse un affare interno di uno sperduto villaggio dell’Amazzonia. Come se non parlasse, drammaticamente, anche all’Italia. Eppure, dai tempi della prima inchiesta su Lula, Moro è conosciuto anche qui come il supergiudice che ha ordinato l’indagine, condannato Lula in primo grado e firmato l’ordine di arresto. Si sa che ama citare frasi di Piercamillo Davigo, dice di aver studiato i metodi di Antonio Di Pietro e considera l’Italia del ’92-’93 l’esempio di rivoluzione morale e politica per via giudiziaria. E’ noto anche qui da tempo che Moro, da giudice, era solito rivendicare la sua passione per la Mani pulite milanese quando spiegava perché gli indizi devono essere sacri come le prove nei processi per corruzione, nei quali sarebbe difficile altrimenti arrivare a una condanna. E si sa che è della Mani pulite italiana che si diceva allievo quando usava a man bassa la delazione premiata, la norma brasiliana sui collaboratori di giustizia. La legge in Brasile prevede un vero e proprio contratto tra imputato e magistrati, in cui il primo si impegna a collaborare facendo i nomi di terze persone indicate da lui come colpevoli e riceve in cambio uno sconto di pena. Il “dimmi qualcosa che non so” di Antonio Di Pietro, rivisto e corretto. Norma pericolosa ai fini dell’accertamento della verità. Allo scopo di mettere fine alla propria carcerazione preventiva o per garantirsi uno sconto di pena, un imputato può finire per dire al magistrato inquirente quello che pensa voglia sentirsi dire. Anche mentendo.
E’ talmente usata la delazione premiata in Brasile che grandi studi legali si sono specializzati negli ultimi anni nella messa a punto del contratto tra collaboratore e inquirenti. Sia la Lava Jato sia il Mensalão, l’inchiesta del 2012 che ha spedito in galera l’intera dirigenza del Pt, sono state basate sull’uso spregiudicato della delazione premiata. Senza l’uso massiccio dei collaboratori di giustizia non ci sarebbero state condanne. Questo in Brasile, finora, non ha fatto scandalo perché l’opinione pubblica s’è convinta che per scovare i responsabili di un sistema di tangenti non si possa andare per il sottile e chi denuncia la violazione del diritto alla difesa passa per essere un pericoloso agente dei corrotti.
Bolsonaro per ora non scarica il suo ministro. E i criptobolsonaristi (che sono tantissimi) dicono e fanno dire: ecco, ora Lula uscirà di galera
Anche il pacchetto anticrimine messo a punto dal Moro ministro ha goduto della stessa aura di sacralità delle sentenze del Moro giudice. Nonostante sia curiosamente lacunoso rispetto a quanto il Moro magistrato raccomandava. Il pacchetto prevede la liberalizzazione del possesso delle armi, il carcere per i condannati in appello anche se hanno ricorsi pendenti (come nel caso di Lula) e un potenziamento della delazione premiata. Non prevede, invece, un limite massimo alle donazioni nelle campagne elettorali, il che permette di aggirare il divieto alle imprese di finanziare campagne deciso dal Tribunale supremo nel 2015. Non mette un tetto alle transizioni in contante e non sanziona le spese considerate illegali in campagna elettorale. Tutte norme che Moro è andato predicando per anni come necessarie a complicare la vita al finanziamento illecito ai politici. E che quando ha scritto il suo pacchetto di leggi s’è scordato. Così come s’è scordato di commentare ogni accusa di corruzione arrivata in questi primi sei mesi di governo al partito di Bolsonaro, il partito social liberale, e alla famiglia del presidente.
In questi giorni i criptobolsonaristi (sono tantissimi, non solo scalmanati cowboy, ma anche illustri pensatori conservatori apparentemente liberali, sparsi in una base elettorale in maggioranza bianca, mediamente più istruita, più ricca e meglio informata del resto del paese) scrivono “Moro nel mirino, Lula uscirà di galera”. Gli avvocati dell’ex presidente ricordano che da anni denunciano i metodi autoritari del processo. Dicono che le rivelazioni, date col contagocce da Intercept per mantenere alta l’attenzione e caldo il tema (stessa strategia usata dalla propaganda della Lava Jato), danno semplicemente i dettagli di una indecenza giudiziaria che loro denunciano al mondo inascoltati da anni, insieme al fatto che le conversazioni nei loro studi legali sono stati per mesi sotto intercettazione e insieme ai mille ricorsi presentati in ogni dove per contestare un giudizio senza prove in mano a un magistrato parziale. Puntano a tentare l’annullamento del processo. Anche se la spuntassero, ciò non risolverebbe i guai giudiziari di Lula, che ha già una seconda condanna ed è coinvolto in altre cinque inchieste.
Il sito Intercept annuncia di avere da parte messaggini audio privati di Moro ancor più clamorosi. Niente, per ora, mostra di poter ribaltare le conseguenze politiche che ha avuto l’azione giudiziaria da lui guidata alla vigilia delle ultime presidenziali. A meno che il materiale non ancora pubblicato contenga clamorose rivelazioni sulla sentenza contro Lula in appello. Quella che nel gennaio del 2018, otto mesi prima delle presidenziali, confermò il giudizio in primo grado di Moro, aumentando la pena a dodici anni. Quella sentenza mise definitivamente Lula fuori dalla corsa per la rielezione perché la legge rende incandidabile una persona condannata in appello. Dovesse saltar fuori, per esempio, che ci fu un accordo segreto per far confermare dai tre giudici del secondo grado la condanna firmata da Moro, fermare la catena di conseguenze politiche dello scandalo potrebbe non essere una operazione semplice.
l'editoriale dell'elefantino