Una seduta plenaria dell'Europarlamento di Strasburgo (foto LaPresse)

Gialli o verdi, gli italiani non vanno da nessuna parte ma si lamentano

Paola Peduzzi, Micol Flammini e David Carretta

Due premi, uno per la tigna (a Weber) e uno per l’irrilevanza (all’Italia), aspettando di vedere che faccia ha l’Ue

E’ passato un mese dalle elezioni europee, i gruppi si stanno formando al Parlamento di Strasburgo, le nomine per le cariche più importanti dell’Unione europea sono ancora per aria, anche se le aspettative per il vertice straordinario di domenica sono molto alte. Non possiamo perdere altro tempo, dicono tutti, mentre si perdono in trattative ed equilibrismi, un grande classico europeo. Ci sentiamo però di consegnare già un primo premio: alla tigna. Il più tignoso di tutti è senza dubbio Manfred Weber, Spitzenkandidat del Ppe, la più grande famiglia politica dell’Ue per quanto in restringimento, che s’aggrappa indomito alla speranza di essere il prossimo presidente della Commissione. I francesi lo vogliono far fuori, ma lui resiste, combatte, scrive articoli, riunisce i suoi padrini tedeschi: non mi lascerete adesso, vero? Più il resto del mondo dice che il processo dello Spitzenkandidat è morto più Weber si inventa nuove dimostrazioni di vita. Persino un sondaggio dal quale emerge che agli europei lo Spitzenkandidat piace molto, anzi di più: è garanzia di democrazia. Ci piacerebbe chiedere a questi custodi (a loro insaputa) della speranza di Weber se lo sanno per davvero, che cos’è uno Spitzenkandidat.

  

Comunque, un premio è assegnato. Ce n’è un altro, ed è per l’Italia. O meglio per il miglior gap tra promesse e realtà, che in effetti è diventato un grande classico italiano. L’Italia che s’affaccia con il suo governo gialloverde sulla nuova Europa con un tasso enorme di scetticismo, in Europa conta meno che mai. Da noi hanno vinto i nazional-populisti di ogni tipo: Lega, M5s e FdI hanno preso il 57 per cento e 47 deputati. Ma nel contesto europeo, dove prevalgono gli europeisti – al 70 per cento, mica poco – questo rappresenta un costo per l’interesse nazionale: autoisolamento, marginalità, perdita di posti e influenza.

 

Nell’ultima legislatura i sovranisti avevano tre gruppi e 165 deputati; in questa hanno due gruppi, molti non iscritti e 178 deputati. Sono passati dal 22 al 23,8 per cento. Il temibile duo Salvini-Le Pen si è rafforzato: da 36 a 73 deputati. I conservatori euroscettici hanno perso 15 seggi (da 77 a 62 deputati). Il duo Grillo-Farage è imploso. Questo significa che mentre l’establishment negozia al Parlamento europeo la “coalizione jumbo”, l’europeismo formato famiglia (quattro gruppi: Ppe, Pse, liberali e Verdi), gli altri guardano. Al Consiglio europeo è uguale: polacchi, ungheresi e italiani non possono bloccare nulla.

 

Ma entriamo nel dettaglio. Nella passata legislatura l’Italia ha avuto: il presidente della Bce (8 anni), l’Alto rappresentante (5 anni), il presidente dell’Europarlamento (2,5 anni), più una serie di cariche, come il presidente del Comitato economico e sociale. Ora? Zero/uno. E gli altri sovranisti? Zero. Negli ultimi 5 anni l’Italia ha avuto quattro presidenti di Commissione all’Europarlamento: Economia, Agricoltura, Ambiente e Cultura. In questa legislatura? Una al Pd, forse due. L’Italia aveva 2 vicepresidenze all’Europarlamento. Ora una al Pd. E i sovranisti? Zero. Negli ultimi cinque anni un italiano ha presieduto il gruppo socialista (per quattro anni). Ora un italiano presiede il gruppo di estrema destra che è ai margini. Un altro italiano copresiede i conservatori dove dominano i polacchi, e FI non ha più vicepresidenti al Ppe. Il gruppo Salvini-Le Pen è grosso ma non conterà nulla perché intorno gli europeisti hanno creato un cordone sanitario. La scelta del nostro vicepremier è significativa: ha preferito i sovranisti considerati infrequentabili (sì, ci sono delle sfumature anche qui, e Marine Le Pen è considerata infrequentabile) che non contano nulla ai sovranisti di governo (i polacchi di Ecr) che contano poco.

 

Nell’orbita gialla del nostro governo va sin peggio. Il M5s doveva essere decisivo e invece sembra destinato al gruppo dei non iscritti, dopo aver tentato corteggiamenti disparati: Verdi, liberali, popolari, conservatori e, nelle ultime ore, l’estrema sinistra del Gue. Per loro all’Europarlamento non sono previste cariche, né rapporti legislativi e di iniziativa, mentre aumentano le difficoltà a presentare emendamenti in plenaria e ci saranno meno soldi e meno funzionari. In Commissione le cose cambiano un po’ di più. 

 

Italia, Polonia e Ungheria invieranno commissari sovranisti. 3 su 28. L’Italia rivendica portafogli economici, come la Concorrenza o il Commercio, ma al massimo può ambire ai meno efficaci Industria o Agricoltura. Sarebbe in ogni caso già meglio di quanto dato a Viktor Orbán, il più sopravvalutato dei politici euroscettici, nel 2014: la Cultura. Al Consiglio l’Italia è ai margini. Il premier Giuseppe Conte è fuori dai negoziati – speriamo che le immagini di domenica siano un po’ meno mortificanti di quelle dell’ultimo vertice – e Salvini e Di Maio non vanno nemmeno alle riunioni dei colleghi ministri dell’Ue. E intanto tutti sono esasperati su deficit e debito, ancor più lo sono i sovranisti. L’Italia non ha posizioni forti, salvo improvvisate su copyright, commercio, Cina o Russia. Sui migranti è finita la pazienza persino dei paesi più pazienti e solidali. Morale: il 26 maggio è cambiato molto nell’Ue solo per l’Italia, e in peggio. Del resto ha eletto il 25 per cento di tutti i nazional-sovranisti dell’Ue: uno su quattro è italiano.

 

Per un piatto di riso. L’Italia si è astenuta sul via libera dell’accordo sul libero scambio con il Vietnam. L’unica su 28 paesi (gli inglesi ancora dentro sbraitano perché l’Ue fa accordi con tutti tranne che con loro). La riluttanza è dettata dalle preoccupazioni sulle importazioni di riso, ma come spesso accade noi ci preoccupiamo delle cose sbagliate. Il Vietnam esporta nell’Ue 75 mila tonnellate di riso ogni anno, l’Ue ne produce 2 milioni di tonnellate. Un’invasione che non c’è, un’altra. Anzi, con questa fissazione per il riso, abbiamo già compiuto un capolavoro: avevamo paura dell’invasione del riso birmano Indica, e l’Ue per proteggerci – no, non è sempre cattiva – aveva messo dei dazi. Ora la Birmania ha iniziato a esportare il riso Japonica, che è una specialità delle risaie italiane. Anche farsi proteggere è un’arte.

 

Quel marinaio aveva ragione. E’ chiaro che la mente va a lui, alla pipa, al cappello, al mento così grande da sembrare un promontorio e alle braccia pronte a gonfiarsi dopo aver bevuto quella lattina piena di verde. Ma non era tutta finzione, gli spinaci avrebbero, secondo l’Università di Berlino, la capacità di rendere più forte chi li mangia. E dopo uno studio durato dieci settimane gli scienziati hanno deciso che l’ecdysterone, un ormone che si trova negli spinaci, dovrà essere inserito tra le sostanze da proibire agli atleti. Ha un effetto dopante. Il povero Elzie Crisler Segar, creatore di Braccio di Ferro, aveva ragione: bello saperlo.

 

Com’è finita con la “sbirra danese”? Bene. Dopo 20 giorni di trattative – lunghissime, si lamentano i danesi venuti da Marte – Mette Frederiksen ha trovato un accordo di governo con gli altri partiti di sinistra della Danimarca. Oggi sarà pubblicato il documento di 18 pagine elaborato dalla leader socialdemocratica che ha vinto le elezioni e dagli altri tre partiti di sinistra, i socialiberali, il Partito socialista e l’Alleanza verde-rossa, ma già si sa che tutto il furore antimigratorio è rientrato. La Frederiksen non manderà i richiedenti asilo nell’isola disabitata di Lindholm e, al contrario, accetterà le quote di redistribuzione previste dalle Nazioni Unite, cosa che la Danimarca non fa più dal 2016. Si occuperà di rimettere in piedi il welfare sminuzzato dal taglio alle spese e di ridurre le emissioni di anidride carbonica del 70 per cento. La Frederiksen guiderà un governo di centrosinistra, insomma, consapevole del problema migratorio ma senza eccessi da “sbirro”: la retorica adottata in campagna elettorale non l’aveva premiata, la più giovane premier della storia danese probabilmente sa già la differenza tra campagna elettorale e governare.

 

Juncker in tre camicie. Zuzana Caputová è il nuovo presidente della Slovacchia, con garbo e passione è riuscita nell’impresa in cui nessuno credeva più: far tornare la fiducia nelle istituzioni dopo la morte del giornalista Ján Kuciak. Dall’inizio del suo mandato non ha fatto altro che lanciare segnali di europeismo e speranza con un sorriso morbido e consapevolmente materno. La sua prima visita, come vuole la tradizione, è stata in Repubblica ceca, era strano vedere il presidente euroscettico e filorusso Milos Zeman accogliere lei, fresca speranza dell’Ue. Pochi giorni dopo il suo insediamento è andata a Bruxelles, dove ha incontrato Jean-Claude Juncker, ancora presidente della Commissione europea, che l’ha accolta con calore ed entusiasmo, ce ne fossero di altri leader così nell’ombrosa Visegrád. Tante le strette di mano, le parole e le promesse cariche di vibrante europeismo. E tanti i vestiti indossati durante la visita, come ha notato un giornalista che come altri ama disquisire sul look delle donne in politica (noi siamo per le giacche della Merkel e contro il leopardo della May) e che le ha domandato se non fosse stanca di cambiare abito  – tre in tutto. Domande del genere sono proibite e seguite dal coro dei “perché nessuno chiede conto ai maschi di come vanno vestiti”, ma a tirare fuori la presidentessa europeista dall’imbarazzo ci ha pensato Juncker: “Questa, a dire il vero, è la terza camicia che anche io cambio oggi”. Che gentiluomo (non metteteci maleducati alla Commissione, che poi finisce che ci manca anche Juncker).