Le differenze tra il piano Minniti e Salvini
La linea dell'ex ministro prevedeva l’arrivo dell’Onu per svuotare i campi, il governo gialloverde s’è tenuto solo gli accordi sui barconi. Ma nel caos non capiamo più nulla
Roma. Quando si parla degli accordi tra l’Italia e la Libia ci sono alcuni equivoci che vanno chiariti. L’equivoco più grande è che il cosiddetto piano Minniti fosse a favore dei campi di prigionia in cui i migranti sono rinchiusi in condizioni spaventose. Il piano Minniti in realtà era articolato in fasi successive che prevedevano l’intervento delle Nazioni Unite in Libia per svuotare i campi e per spostare tutti i migranti sotto la protezione internazionale. È chiaro che per i migranti – che a centinaia di migliaia arrivano da sud fino alla costa libica e lì sono detenuti anche per anni – passare dalle mani dei libici a quelle delle Nazioni Unite avrebbe significato la salvezza. Avrebbero abbandonato la condizione di prigionieri sottoposti a torture e abusi per tornare esseri umani sotto la responsabilità di un’organizzazione internazionale.
Prevedeva anche che l’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati (UNHCR) cominciasse in Libia il lavoro per capire quanti fra gli immigrati avessero diritto allo status di rifugiato perché in pericolo e aprisse per loro un corridoio umanitario verso l’Europa – quindi saltando il passaggio del traffico di persone sui barconi, in mano alla criminalità e a rischio naufragio. E allora perché non è successo? Che cosa non ha funzionato? Il piano Minniti si è fermato alla prima fase, quella del blocco delle partenze dei barconi, perché il governo di Tripoli sponsorizzato dalle Nazioni Unite non ha mai raggiunto il livello di stabilità necessario a continuare. Anzi, adesso è a rischio estinzione perché da tre mesi è assediato dalle milizie del generale Khalifa Haftar, che nei primi giorni di aprile ha lanciato un blitz per catturare la capitale – l’attacco doveva durare ventiquattr’ore, invece si è trasformato in una guerra civile che finora ha fatto settecento morti.
Eppure l’unica speranza di chiudere i centri di detenzione in Libia sarebbe avere a Tripoli un governo forte e stabile, che possa approvare una missione delle Nazioni Unite, e invece accade il contrario: il governo sponsorizzato dalle Nazioni Unite è stato abbandonato quasi da tutti e di fatto sopravvive ancora soltanto perché alcune milizie disprezzano Haftar e non vogliono finire sotto il suo regime e anche perché Turchia e Qatar lo tengono in vita per ragioni politiche che non c’entrano nulla con i rifugiati. Se alcuni deputati del Partito democratico pensano che eliminare gli impegni dell’Italia migliorerà la situazione, non hanno capito che servirebbero più accordi e non meno. Nel frattempo in Italia è arrivato il governo gialloverde a cui delle fasi successive del piano non importava, gli è bastato ereditare l’accordo per limitare le partenze dei barconi dalla costa libica. L’esecutivo italiano mostra di non capire la gravità del problema. A novembre il premier Giuseppe Conte aveva annunciato che il 2019 sarebbe stato l’anno della svolta in Libia, quello della pace, e invece è chiaro a tutti gli osservatori che la situazione peggiora di settimana in settimana. La riconciliazione della Libia cercata con forza da Paolo Gentiloni, prima da ministro degli Esteri e poi da presidente del Consiglio, non era un obiettivo astratto oppure “buonista”: la Libia stabilizzata era il requisito necessario ma non sufficiente per realizzare il resto del piano, che prevedeva l’arrivo delle Nazioni Unite, la fine dei centri in cui sono rinchiusi i migranti in condizioni orrende e il controllo del flusso di migranti verso l’Italia.
La linea Minniti prevedeva anche accordi nel sud della Libia e una missione militare al confine sud del paese, quello con il Niger, in modo che ci fosse una prevenzione a più strati. I trafficanti di persone dovevano essere bloccati molto più a sud, in modo da evitare che i migranti arrivassero fino alla costa libica, e quelli sulla costa non dovevano partire sui barconi, in modo da diminuire al massimo le traversate (e gli annegamenti in mezzo al mare). Di nuovo: tutto questo non si è realizzato, anzi è proprio sparito dall’orizzonte.
C’è poi la questione dell’ospedale da campo a Misurata, sulla costa duecento chilometri a est della capitale. Di fatto, è uno dei pochi simboli dell’impegno dell’Italia verso il governo di Tripoli. Potremmo pure chiuderlo, ma poi non si capisce perché qualche libico dovrebbe ancora ascoltare cosa abbiamo da dire su quello che succede nel loro paese. Tenere i canali di comunicazione aperti invece ci servirebbe – e non poco.