Gli immoderati della porta accanto
Dai macroniani ai Verdi, le idee per una nuova politica ci sono e hanno anche una bella faccia. Ma si muovono su un filo sottile, con l'ansia di sporgersi a destra o a sinistra
C’è un’idea di movimento, di casa per casa, di rivoluzione, direbbe Emmanuel Macron che alla Rivoluzione, la sua, ha dedicato un libro e che dell’attivismo progressista è il promotore, il prodotto e anche il successo. Senza movimento non si incede, non si va da nessuna parte, si sta fermi e seduti sullo sciabordio delle idee politiche, dei partiti che furono e che non riescono più a essere. E’ inutile lanciarsi in chiacchiere, copiare i populisti, che in materia di populismo saranno sempre loro i più bravi, è inutile attendere che torni l’èra della ragione, per vincere le elezioni ci vogliono i voti, che della vittoria sono l’unità di misura. Ci vogliono persone che decidano: io scelgo te e te lo dico nell’urna, in segreto, con una crocetta. Il problema è prenderli questi voti e creare con pragmatismo una corrente nuova, con idee che piacciano ma anche con tanti programmi, ed essere sicuri che queste idee arrivino alle persone, e forgiarle assieme a loro, sarebbe perfetto. Il presidente francese che alle elezioni europee non ha vinto, ma non ha nemmeno perso, è stato il primo politico a farsi eleggere grazie a tanto attivismo progressista e chi per lui ha curato la comunicazione ha provato a spiegare il successo della sua campagna e il progressismo in generale.
Marcia, ascolto, organizzazione. Secondo gli ex strateghi macroniani Ismaël Emelien e David Amiel sono questi gli elementi fondamentali dell’attivismo progressista che deve vivere uno scambio continuo di idee con l’elettorato. Così è stato costruito En Marche: dal basso
En Marche è stato un esperimento partito dalla terra, dalla marcia e dall’ascolto. Ascoltando gli elettori Emmanuel Macron ha poi costruito la sua campagna presidenziale. E l’ascolto è stato anche parte della risoluzione della crisi con i gilet gialli, con il Grand débat national che non è stato il solo elemento risolutivo – secondo gli analisti il movimento è finito in parte per le riforme macroniane, in parte per un’usura naturale – ma ha ricostruito il legame tra il presidente e i francesi, “una cosa mai vista prima”, aveva detto al Foglio il filosofo francese, alfiere del macronismo, Bernard Henri Lévy.
Altro elemento fondamentale dell’attivismo progressista, come spiegano i due strateghi, sta nell’organizzazione, che non deve e non può formarsi alla rinfusa soltanto nel periodo elettorale, non bisogna dare agli elettori la sensazioni di essere abbandonati nell’intervallo tra un’elezione e l’altra, bisogna creare una rete continua, osmosi e ascolto. Non è un caso se spesso i populisti, anche dopo aver vinto le elezioni, creano un clima da campagna elettorale permanente: Viktor Orbán, il primo ministro ungherese, è in campagna elettorale da tre mandati consecutivi, i vicepremier italiani, Matteo Salvini e Luigi Di Maio, lo sono dal primo giugno dello scorso anno. I populisti sono maestri in questo, come lo sono nell’arte del gridare più forte, non serve imitarli, non si può, l’attivismo progressista deve essere altro. “Per un’alternativa vincente al populismo, ci vuole un progressismo dal basso”, concludono Ismaël Emelien e David Amiel, osando utilizzare quell’espressione, “dal basso”, finora abusata dai populisti. La differenza sta nelle priorità che per i progressisti stanno nel dare all’individuo gli strumenti per scegliere la propria vita. Il macronismo è un esperimento tutto francese, al New Yorker Stanislas Guerini, delegato generale di En Marche, ha detto che è innanzitutto “audacia, è la capacità di assumersi i rischi dicendo la verità ai francesi”, ma in tutta Europa si stanno formando correnti e movimenti con interessi comuni, non tutti sono riusciti nell’impresa come il presidente francese, ma il progressismo ha i suoi volti e i suoi colori e l’attivismo oggi, marcia e impegno, è soprattutto verde.
L’ambientalismo sta prendendo il posto dell’immigrazione come nuova battaglia culturale che divide l’Unione europea tra oriente e occidente e le nazioni tra città e periferia. Partiti nazionalisti come l’AfD in Germania sono pronti a trasformare l’ecologismo nel nuovo nemico
L’ambientalismo è la nuova battaglia culturale europea, sentita senz’altro da un certo tipo di elettorato il cui identikit lo abbiamo ritratto spesso: giovane, urbano e più istruito della media. Ci si muove sul filo, come equilibristi attenti a non sporgercisi troppo né a destra né a sinistra, il centro va ricostruito, ma è una linea sottilissima che si contende la causa ambientalista con le sinistre, “chi vuole diventare verde lo diventi pure”, ha detto Jadot al Monde, precisando che se Jean Luc Mélenchon intendeva proporre una politica ambientalista era libero di farlo, ma i Verdi non sono solo quello e per questo si trovano molto più comodi al fianco dei liberali. Come scrive la rubrica Charlemagne sull’ultimo numero dell’Economist, l’ambientalismo sta prendendo il posto dell’immigrazione. La battaglia migratoria era vista come una frattura tra l’oriente e l’occidente dell’Unione europea e la stessa cosa sta accadendo con l’ambientalismo per il quale i paesi dell’est non sono pronti a fare rinunce, così come non erano pronti a farle per le quote dei migranti.
Come nell’immigrazione, anche per le politiche ambientali il divario è tra città e periferia, lo ha espresso in modo chiaro il movimento dei gilet gialli e anche partiti nazionalisti, come l’AfD in Germania, stanno trasformando l’ecologismo nel loro nuovo nemico. Per cui gli attivisti possono imparare diverse lezioni sulle cose che le politiche di accoglienza hanno sbagliato e il modo di condurre la battaglia è sempre lo stesso consigliato da Emelien e Amiel: marcia, ascolto e organizzazione. Il rischio c’è e a cadere o a destra o a sinistra si fa in un attimo. Se En Marche è il prototipo del successo liberale, gli spagnoli di Ciudadanos sono un’occasione mancata, un partito che desiderava creare il centro, farlo con la marcia e l’ascolto e invece è finito contro un muro, si è sporto troppo a destra nelle sue alleanze, ha perso fiducia e la rivoluzione, quella macroniana, in Spagna non c’è stata.