In Germania le femministe che criticano il velo islamico se la passano male
“L’accusa di islamofobia diventa un argomento contro ogni possibile critica all’islam”. Una lunga sequenza di aggressioni contro Docenti, vignettiste, attiviste
Roma. Mentre in Francia, come ogni estate, riesplode la battaglia fra velati e nudisti sulla presenza del burkini nelle piscine pubbliche, in Germania criticare il velo islamico sta diventando sempre più difficile, al limite del proibito, proprio per le donne.
L’Università di Francoforte è appena stata al centro di accese polemiche per una conferenza sul velo islamico. Gli studenti hanno accusato l’ateneo di promuovere l’“islamofobia”, chiedendo il licenziamento dell’antropologa Susanne Schröter, a capo del Centro di ricerca islamico dell’Università e organizzatrice della conferenza. Tra i relatori c’erano Alice Schwarzer, una delle femministe più famose della Germania, e Necla Kelek, una importante critica dell’islam di origine turca.
“L’accusa di islamofobia diventa un argomento contro ogni possibile critica all’islam”, ha risposto Schröter. “Se la libertà di espressione non è più possibile, allora questa è la fine di una società democratica libera”. Dei dieci oratori, quattro di loro ora si muovono scortate da guardie del corpo. “Perché sono nella lista di tutti i radicali”, ha rivelato Schröter.
E’ stata aggredita Fatma Keser del Comitato studentesco dell’Università di Francoforte, rea proprio di essersi smarcata dalle proteste contro la conferenza sul velo. “Cagna”, “puttana” e “razzista” sono gli insulti che le sono stati rivolti, come ha confessato la stessa Keser alla Welt due giorni fa. “L’accusa di razzismo anti islamico immunizza l’islam e i suoi simboli” ha spiegato Keser, nata nel sud-est della Turchia, a Saniurfa, e che dall’età di tre anni vive a Düsseldorf, dove i genitori sono stati accolti in qualità di rifugiati curdi.
Nelle stesse ore in Germania scoppiava il caso di Franziska Becker, famosa vignettista femminista e storica firma del magazine Emma, accusata di “islamofobia” e “razzismo” per una vignetta che irrideva il velo islamico a ridosso della cerimonia del premio Hedwig-Dohm.
La scrittrice Carolin Emcke, che ha ricevuto il Premio per la pace dei librai tedeschi, si è chiesta: “Chi è che fa parte della giuria? Così per curiosità...”. Teresa Bücker, caporedattrice del giornale femminile Edition F, ha scritto: “Ho appena visto alcune sue vignette. Ho le vertigini, sono spesso razziste, e soprattutto contro le donne che portano il velo”.
Franziska Becker ha risposto alle accuse con una intervista al magazine Cicero, dove ha attaccato “i politicamente corretti e gli ideologicamente testardi interessati a soffocare le discussioni e che etichettano immediatamente come razzisti, anti islamici e così via”. Il prezzo che si paga a criticare il velo lo conosce molto bene una femminista turca, Seyran Ates, che a Berlino ha creato Ibn Rushd-Goethe, la prima “moschea liberale”, non soltanto aperta a donne senza velo, ma anche interdetta a quelle con il niqab e il burqa. Sei agenti della polizia tedesca sono oggi messi a protezione di Ates. “Riceve trecento lettere di sostegno al giorno, ma tremila di minacce”, ha fatto sapere l’avvocato di Seyran Ates, che fa anche parte del gruppo per una iniziativa laica sull’islam della professoressa Schröter.
Nella sorniona e ricca Germania, dove i conflitti culturali esplodono sempre in ritardo rispetto a Francia e Inghilterra, si consuma la crisi del velo e della critica all’islam esercitata all’interno dei confini della democrazia. Un tempo si discuteva della presenza nelle società aperte di un “corridoio” garantito a opinioni e idee controcorrente. La Germania deve decidere cosa fare del proprio corridoio. Altrove lo hanno già chiuso.
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