L'Alleanza atlantica è fatta per restare, nonostante i populisti. Parla Breedlove
L’ex comandante della Nato ha le idee chiarissime su Russia, Cina e le minacce all’Europa
Roma. Il generale Philip Breedlove ha comandato la Nato tra il 2013 e il 2016 dopo avere ricoperto una serie di posti al vertice al Pentagono, oggi è in congedo e quindi può parlare con molta più libertà e il Foglio ha fatto una chiacchierata con lui durante l’ennesima visita in Europa – la diciannovesima in tre anni, perché in pratica il generale s’è preso il compito informale di tenere stretti i rapporti tra l’America e il resto della Nato. Fa la spola con l’Italia (ieri era invitato anche in un ufficio del Parlamento a parlare), la Germania, il Belgio, la Turchia e gli altri posti in cui ha prestato servizio negli ultimi trent’anni.
Ci sono due cose che colpiscono di Breedlove mentre espone le sue idee. La prima è che evita qualsiasi riferimento al presidente americano Donald Trump, che in questi due anni e mezzo di mandato ha preso posizioni molto dure verso la Nato e verso l’Europa. Trump ha chiesto in privato al suo staff se non è arrivato il momento per l’America di uscire dalla Nato e accusa in pubblico gli altri membri dell’Alleanza di non investire abbastanza soldi nel budget della Difesa comune, è il primo presidente americano a mettere in discussione la necessità di esistere della Nato. Inoltre ha un atteggiamento molto permissivo con la Russia del presidente Vladimir Putin, che della Nato è la prima antagonista.
Breedlove incarna la posizione contraria: non vuole rispondere su quello che fa o dice Trump, ma sostiene esplicitamente che la struttura dell’Alleanza atlantica è fatta per restare e smentire chi la vorrebbe agli sgoccioli, perché si fonda su intese tra nazioni e forze militari ed economie che sono più profonde delle turbolenze politiche di superficie. La politica spesso è una faccenda short term, di breve durata, dice lui – ed è questa la seconda cosa che colpisce – ma le alleanze e le relazioni fra paesi alleati continuano. Conta il quadro storico, non il singolo governo con le sue scelte. E’ un concetto che di questi tempi è molto interessante, perché ci sono movimenti politici nuovi che hanno per programma la fine dell’ordine che conosciamo. L’ondata populista che vorrebbe scardinare tutto non è vista da Breedlove come un cambiamento strutturale profondo, ma come un fatto transitorio – e soltanto il tempo potrà dire se il generale ha ragione, ma è una visione interessante da registrare. Chissà se i suoi interlocutori in America e in giro per l’Europa la condividono.
Breedlove è pochissimo diplomatico quando parla delle minacce contro l’Europa. La Russia che invade l’Ucraina per due volte – Crimea e Dombass – è l’annuncio che “la forza è tornata di nuovo come mezzo per cambiare confini dell’Europa riconosciuti internazionalmente”, che era una cosa che pensavamo fosse ormai confinata al secolo scorso. “La Russia assassina persone nelle strade inglesi, progetta colpi di stato in Montenegro, condiziona le elezioni americane 2016 ed è già al lavoro per quelle 2020”. Il generale parla di “large forces” che potrebbero essere necessarie per combattere in Europa in futuro. Se ci sembra una frase esagerata, allora dovremmo chiedere agli ucraini che vivono con una crisi militare nell’est del loro paese dal 2014. Pure con la Cina le idee sono chiare: accettare il sistema 5G cinese è incredibilmente pericoloso, perché la Cina ha costruito un sistema tecnologico basato sui dati per avere il controllo totale dei propri cittadini “quindi non voglio che in nessun modo i cinesi abbiano accesso ai miei, di dati, devono restare fuori dai nostri telefonini”.
Breedlove è autocritico per quanto riguarda le strategie usate dai governi occidentali, abbiamo molti modi per rispondere alle minacce – diplomazia, intelligence e informazioni, forza militare, pressione economica – ma spesso si sceglie di usarne soltanto uno. Disegna uno schema con un pennarello. Con il terrorismo islamico usiamo soltanto la forza militare, non usiamo gli altri fattori. Con la Russia scegliamo soltanto la pressione economica, e di nuovo niente altro, “perché abbiamo paura di provocarli. E come dovremmo definire le loro operazioni, se non provocazioni contro di noi?”.
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