Cinesi internati
L’Onu offre al vicegovernatore dello Xinjiang la pedana per giustificare i campi di rieducazione
“Vennero a prenderci di notte”. E’ una sintesi perfetta quella degli autori di Vice News che qualche giorno fa hanno pubblicato un documentario sui fedeli musulmani di nazionalità cinese (oltre un milione) rinchiusi in veri e propri campi di indottrinamento e rieducazione. Per il Partito comunista cinese l’argomento che giustifica l’esistenza dei campi sono la prevenzione del terrorismo e del separatismo etnico. Nella regione dello Xinjiang i fedeli musulmani costituirebbero infatti una minaccia esistenziale all’ordine pubblico e alla sicurezza. Si giustificherebbe così il più imponente esperimento recente di sorveglianza su una minoranza etnica, che si presta a essere incubatore per eventuali politiche autoritarie del futuro. In questa regione della Cina la tecnologia è messa al servizio dei desiderata di autoritarismo del Partito comunista e del governo. Le forze di polizia controllano regolarmente i cellulari dei cittadini, alcuni acquisti sono controllati con codici QR associati, con il riconoscimento facciale vengono controllati gli spostamenti delle persone. All’ingresso di alcuni luoghi pubblici sono stati installati cancelli, per accedere è necessario strisciare la carta d’identità con i propri dati personali. Ieri il Guardian sulla base di un’inchiesta condotta con il New York Times la Süddeutsche Zeitung e l’organizzazione non governativa Privacy International ha sostenuto che la polizia di frontiera cinese avrebbe segretamente installato un’applicazione per la sorveglianza nei telefonini dei visitatori entrati in Xinjiang. Tutto normale?
Un nuovo capitolo di questa orribile storia è stato scritto la scorsa settimana quando il vicegovernatore dello Xinjiang, Aierken Tuniyazi, intervenendo a Ginevra davanti al Consiglio per i diritti umani delle Nazioni Unite ha sostenuto che quelli presenti nella regione sono solo dei centri creati per “salvare” le persone dall’estremismo e combattere il terrorismo. Come ha sostenuto Hillel Neuer, direttore esecutivo di UN Watch, ogni volta che si entra al Consiglio dei diritti umani delle Nazioni Unite, un luogo in cui hanno un posto a tavola l’Arabia Saudita, la Cina e Cuba, sembra di entrare in un universo distopico. Il che potrebbe anche essere un’interessante esperienza se non fosse che questo organismo dovrebbe servire da soggetto di riferimento per lo sviluppo di standard internazionali per la protezione dei diritti umani.
Quanto accaduto a Ginevra è solo l’ennesimo segnale della crisi in cui versa il movimento che, dopo la fine della Seconda guerra mondiale, aveva combattuto per l’affermarsi di diritti universali e che ora, anche mediante il disimpegno statunitense, vede sempre più affievolire la sua influenza. Con i numeri in gioco (oltre un milione di cinesi rinchiusi nei “campi di rieducazione”) non sorprende che ormai quanto accade in Cina abbia destato l’interesse di numerosi commentatori. Jonah Goldberg sulla National Review si chiede perché i politici americani non affrontino il tema del crescente autoritarismo cinese e restino in silenzio davanti all’“arcipelago di gulag e di campi di internamento e rieducazione”. Certo, sorprende leggere che Erdogan, il quale nel passato era stato critico delle politiche cinesi e si era schierato a difesa dei fedeli musulmani, sia di recente intervenuto sulla tv di stato turca per sostenere che i musulmani dello Xinjiang “vivono felici nella prosperità cinese”. Inutile sottolineare che le voci istituzionali europee non compaiono nemmeno sullo sfondo del dibattito. Quanto accade in Xinjiang ci riguarda però tutti. Per quanto le cose possano apparire non direttamente collegate, all’export cinese di tecnologia è connesso anche un modello di società e di tutela dei diritti. Non a caso alcuni senatori americani hanno chiesto al presidente Trump di approvare sanzioni proprio in questo campo. Non ci resta quindi che aspettare il prossimo viaggio di Luigi Di Maio in Cina.
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