Tav formato Texas
Nello stato più libertario d’America l’alta velocità è un affare tutto privato ed è, ohibò, sostenuta dagli ambientalisti
C’era una volta il west, terra desolata eppure fertile, terra promessa e maledetta insieme che appariva come un foglio bianco agli scappati di casa senza tatto né legge che, duecento anni fa, decidevano di constarla, con tutto l’immaginario che ne è seguito: pistoleri, sceriffi, mezzogiorni di fuoco, diligenze, indiani d’America con le piume e l’urlo di battaglia, cavalcate verso il sole, cowboy mezzi delinquenti mezzi giustizieri. Il west, insomma. Non sappiamo se laggiù, duecento e passa anni fa, le cose andassero esattamente come ce le ha raccontate John Ford, ma visto che è praticamente l’unica narrazione che ne abbiamo, ci tocca prenderla per buona. Quello su cui John Ford, nella sua creazione epica di un universo forse vero forse no, ha sorvolato (non fosse che per un film dei tempi del muto, “Cavallo d’Acciaio”) affidandone la narrazione ai libri di storia (e, molti anni dopo a un perfetto e assai più terrigno Sergio Leone e, mutatis mutandis, a un ispirato Francesco De Gregori) è il fatto che anche se è poco romantico a dirsi, la conquista del west è stata, prima che un fatto di giustizieri e delinquenti, un fatto di “infrastrutture”. Suona male, ma tant’è. Tutti (o quasi) sanno che se si vuole prendere un territorio un po’ desolato e farlo crescere e trasformarlo da “Selvaggio West” in “Beverly Hills” occorre costruire una strada che gli faccia fare andata e ritorno dal resto del mondo. Vale per tutto, per i quartieri in cui non arriva la metropolitana, così come per le terre promesse: no strada, no party.
Così, nel 1861, il Presidente Abraham Lincoln chiamò i solerti imprenditori di Central Pacific e Union Pacific, li mise attorno a un tavolo e diede loro l’incarico di costruire la First Transcontinental Railroad, alias la più imponente linea ferroviaria che si fosse mai vista, capace di attraversare da est a ovest un continente intero. L’idea era di partire da Omaha, dove all’epoca finiva l’unica linea ferroviaria d’America (New York-Chicago-Omaha), e, una traversina dopo l’altra, raggiungere Sacramento, in California. L’itinerario lasciava fuori il sud, con il quale Lincoln, si sa, non andava del tutto d’accordo. Certo per costruirla ci volevano moltissimi soldi, e lo stato federale, appena uscito dalla guerra, non ne aveva. Allora, al presidente venne un’idea tanto spregiudicata quanto semplice: per convincere le imprese private a costruire quella strada di ferro, senza ricevere nemmeno un quattrino dal governo federale, decise che tutte le terre disabitate, vuote, ancora da assegnare che la ferrovia avrebbe toccato sarebbero diventate, automaticamente, della compagnia ferroviaria che per prima vi installava i binari. Non solo, per essere certo che i tempi della costruzione fossero rapidi e per dare un pungolo alle imprese a darsi una mossa, Lincoln stabilì che i due costruttori sarebbero dovuti partire uno da est e uno da ovest e che i binari si sarebbero dovuti unire in un punto imprecisato d’America. In pratica stabilì implicitamente una gara tra i costruttori: chi era più veloce, si accaparrava più terra. L’idea funzionò e nove anni dopo, a Promontory Point, nello Utah, i binari si toccarono. Al momento dell’unione dei due tronconi la Union Pacific aveva costruito 1.086 miglia di ferrovia mentre la Central Pacific, a causa del ritardo dell’inizio dei lavori e soprattutto delle enormi difficoltà nel superare le montagne, solo 689.
Oggi, 150 anni dopo, le cose non sono cambiate di molto. Negli Stati Uniti di oggi, di fatto, la ferrovia non c’è o quasi. Laddove c’è, è lenta e inefficiente: dopo la Seconda guerra mondiale, i presidenti degli Stati Uniti pensarono che fosse più redditizio investire su automobili e autostrade, su aerei e aeroporti invece che su treni e ferrovie. C’è da capirli: erano gli anni del boom mica quelli del riscaldamento globale. Il risultato fu che, in una manciata di anni, gli americani, semplicemente, smisero di considerare il treno come un’opzione: nel 1946 i km/ passeggero (ossia i chilometri che ogni passeggero compiva in un anno) erano 770 milioni, nel 1964 appena 298 milioni. Oggi si arriva a stento a 20 milioni. Nel 1954 c’erano oltre 2.500 treni a lunga percorrenza, nel 1969 500, oggi, in pratica, non ce ne sono e per fare da New York a Los Angeles servono tre giorni, con cambio a Chicago. La Amtrack, società federale delle ferrovie e unica a gestire il trasporto passeggeri (non per sua scelta, ma perché i privati si sono concentrati solo sul trasporto merci) è un carrozzone male in arnese che (r)esiste proprio perché deve e che, di volta in volta, cerca finanziamenti e sostegno dai vari presidenti, ottenendo però poco più che una pacca sulle spalle. Il risultato è che oggi nessuno li prende, i treni, nessuno ci investe e per causa ed effetto insieme i treni sono sempre più malconci e vetusti e quindi nessuno li prende. E via così.
Un circolo vizioso che, esattamente come ai tempi di Lincoln, tocca ai privati provare a rompere.
L’idea arriva, niente meno, che dal repubblicanissimo e petrolifericissimo Texas dove sta per diventare realtà la prima linea ad alta velocità d’America. Il progetto è quello di una linea ad alta velocità tra Houston e Dallas, che dimezzerebbe i tempi: dalle tre ore e mezzo necessarie oggi a meno di 90 minuti. Una volta completata la linea, fare la tratta in treno richiederà meno tempo dell’aereo (il volo è di un’ora, ma tra una cosa e l’altra ne saltano più di due). Una Tav. Se tutto va come deve i lavori dovrebbero cominciare entro la fine dell’anno. Il costo stimato è di circa 15 miliardi di dollari i tempi di realizzazione previsti sono di cinque anni. I fondi arrivano da una compagnia privata, la Texas Central, che costruirà ex novo ferrovia e stazioni e che ha fatto sapere di non avere bisogno di un centesimo dal governo né federale né del Texas. “Si tratta di un progetto decisamente nuovo. Una piccola rivoluzione, almeno per gli standard americani”, spiega al Foglio Peter LeCody, presidente dell’associazione Texas Rail Advocates, che fa lobby a favore del progetto. Di fronte a un interlocutore italiano, LeCody parte in contropiede: “Mi fa particolarmente piacere parlare con un giornale italiano, perché è proprio all’Italia che il progetto di High Speed Train (HST) si ispira”. Prego?, chiedo mezza convinta di aver capito male, viste le nostre vicende sulla Tav. “Sì. Il vostro progetto di Italo (“Itàlo”, come dice lui) ci ha molto ispirato, perché si tratta di una compagnia ferroviaria del tutto privata che opera su un mercato pubblico. Italo è questo no?”. Confermiamo. “La differenza rispetto a voi credo sia che Italo usa binari di proprietà dell’operatore pubblico, che c’erano già, mentre invece HST intende costruirne di nuovi tutti suoi”. Confermo ancora. “Lo stesso vale per le stazioni e tutte le infrastrutture collegate: a Houston e Dallas e nelle città intermedie nasceranno nuove stazioni in zone che oggi sono depresse e che saranno riqualificate, rese vive, in senso sia residenziale sia commerciale. Lì, presumibilmente starà il vero profitto, non solo nei biglietti eventualmente venduti, ma nelle speculazioni (con accezione neutra del termine) che sorgeranno in conseguenza della nuova linea ferroviaria”. Un business che potrebbe essere miliardario. Ma non è la sola differenza rispetto a noi. La più importante è economica: la linea sarà del tutto costruita da un privato, che rimarrà proprietario di binari, vagoni e stazioni. Ma nessuno sa chi sia (o siano) questo privato che si cela dietro il nome di HST. E per di più non si può sapere. “La legge dello stato del Texas prevede che un’azienda privata non sia tenuta a mostrare i suoi libri contabili. Il che, detto in modo molto semplice, significa che non sappiamo chi intenda finanziare l’opera e chi ne sarà proprietario”. Quindi ci potrebbero essere capitali stranieri: “E’ impossibile saperlo ma è molto probabile che ce ne siano. Per esempio ci potrebbero essere investitori giapponesi, visto che la tecnologia dei nuovi treni ad alta velocità si ispira proprio ai treni proiettile (shinkansen) che operano in Giappone”. Ok dunque, giapponesi. Ma altri, per esempio russi o cinesi? “Forse – sorride – Ma davvero non lo sa nessuno”.
La seconda differenza, rispetto a noi, è politica. Paese che vai, no-Tav che trovi. Solo che in Texas la Tav la chiedono a gran voce gli ambientalisti democratici e invece vi si oppongono i repubblicani. La stessa Alexandria Ocasio-Cortez è una fan del progetto e nel suo “Green New Deal” auspica che iniziative simili si possano ripetere in tutto il paese, così da ridurre gli inquinantissimi aerei.
I No Tav texani sono molto diversi dai nostri: hanno paura che i calcoli siano fatti male e non sanno che farsene, di un treno. Nel “Green Deal” presentato dal Partito democratico c’è molta enfasi sul progetto, che permette (sulla carta) di utilizzare meno gli aerei
Quindi, l’opposizione alla Tav texana non è una faccenda di ambiente. Anzi. A guidare l’opposizione dei Texans Against High Speed Rail sono soprattutto i proprietari terrieri della zona, i quali pongono più questioni. La prima è più sottile, anche se parecchio profonda, e prende le mosse da una domanda semplice: “Cos’è la Texas Central? E’ o non è una società ferroviaria?”. Se lo è, allora ha diritto di espropriare i terreni necessari alla costruzione della linea; se non lo è questo diritto non ce l’ha. Di fatto, per ora, la corte della Contea di Leon, cui alcuni proprietari si sono appellati, ha stabilito che no, dal momento che Texas Central non ha mai gestito una linea o un treno, di fatto, almeno per ora non lo è. Quindi non ha nessun diritto sui terreni su cui vorrebbe tracciare il suo percorso (ne ha già acquistato il 30 per cento, dice, a prezzo superiore a quello di mercato). La seconda questione, invece, ha a che fare con la solvibilità dell’azienda. La costruzione di una linea ferroviaria ex novo è una faccenda costosissima e piena di incognite, tanto che, di recente, lo stato della California (non un privato, uno stato, per di più il più ricco di tutti) ha dovuto fare marcia indietro d’innanzi a un progetto simile. Come può pensare, una società privata – si chiedono i proprietari terrieri texani – di aver più soldi e solvibilità di uno stato?. Se Texas Union, che pure rassicura tutti dicendo che i lavori partiranno solo quando l’opera sarà completamente finanziata, dovesse aver sbagliato i conti, il Texas si ritroverebbe con una linea ferroviaria a metà e una pletora di proprietari terrieri (giustamente) inferociti. A questo punto il governo locale dovrebbe o completare la linea, o risarcire i latifondisti. In entrambi i casi sarebbe un bagno di sangue economico e politico.
La terza perplessità ha a che fare con le stime presentate da Texas Union, che conta di avere 6 milioni di passeggeri all’anno entro il 2029 e più di 13 milioni entro il 2050. Una stima che in molti temono troppo ottimistica visto che i passeggeri dei voli tra le città oggi sono circa 700 mila all’anno. Un ultimo problema poi ha a che fare con la mentalità texana, profondamente conservatrice: gli abitanti delle contee di Waller, Grimes, Leon, Limestone, Navarro ed Ellis hanno accusato il Texas Central di voler stravolgere il loro stile di vita, le loro proprietà, il disegno stesso del Texas: “E’ difficile per noi gente che vive in campagna vedere il nostro stile di vita andare in malora”, dicono, perché, in fondo in fondo, i no-Tav si somigliano un po’ tutti.