Così i Justice Democrats vogliono prendersi il corpo della sinistra americana
Replicare il modello Ocasio-Cortez. Il gruppo fondato da Chakrabarti sta setacciando la mappa elettorale a caccia di moderati da scalzare
Roma. Lo chiamano il “chief of changement”, il capo del cambiamento, ed è stato un suo tweet la scintilla dello scontro interno al Partito democratico, poi diventato virale con la tweetstorm di Donald Trump, che trasforma ogni fuoco in incendio. Il capo del cambiamento è Saikat Chakrabarti, il chief of staff di Alexandria Ocasio-Cortez e molto, molto di più: “Sta guidando un movimento”, ha scritto il Washington Post in un lungo articolo dedicato a lui, un movimento che vuole ribaltare l’idea che, per vincere, bisogna stare ben ancorati al centro, soprattutto se devi battere uno come Trump, che scorrazza sui confini degli estremismi. Il tweet della discordia è stato cancellato, ma si sa che nulla si cancella davvero, e certo non si cancella quel che ha scritto Chakrabarti: “Invece che definirli ‘fiscalmente conservatori ma socialmente liberal’ dovremmo dire che i New Democrat e il Blue Dog Caucus (i moderati, ndr) sono ‘i nuovi Democratici del sud’. Di certo sembra che vogliano fare oggi alle persone di colore quel che i vecchi Democratici del sud fecero negli anni Quaranta”. Di fatto Chakrabarti ha detto che l’establishment democratico è razzista, e da lì si è scatenata la lotta che ha visto protagoniste Nancy Pelosi, rappresentante massima dell’establishment democratico, le ragazze dello “Squad”, le deputate radicali capitanate da Ocasio-Cortez, e naturalmente Trump. Lo scontro è brutale, ma è soltanto l’inizio: Chakrabarti vuole radicalizzare l’agenda del Partito democratico, è soddisfatto quando diventa il target di Trump, perché lo vedete no?, si parla soltanto di noi, e vuole cambiare non soltanto l’anima del partito, ma anche il suo corpo, un deputato alla volta, una campagna elettorale alla volta. I Justice Democrats, il gruppo fondato da Chakrabarti, vogliono rendere concreta questa metamorfosi, lui è ossessionato dal “real change”, dalla concretezza del cambiamento, è scappato dalla Silicon Valley proprio per questo: lì gli sembrava di non cambiare nulla.
Il tweet della discordia nasceva dallo scontro dentro al Partito democratico su un pacchetto di aiuti per la crisi al confine sud dell’America: i moderati l’hanno un po’ annacquato, e per i più radicali è stato un affronto inaccettabile. Chakrabarti ha cancellato il tweet ma non si è pentito e ha scritto sui social che i moderati sono troppo concilianti con Trump e finiscono per non fare nulla, se non adeguarsi agli stravolgimenti voluti dal presidente.
Più passa il tempo più Chakrabarti e i Justice Democrats diventano agguerriti e incontentabili, “ci guardiamo tutti alle spalle”, ha detto un deputato moderato a Politico, perché la battaglia non sarà soltanto per le primarie per la Casa Bianca, si elegge anche il nuovo Congresso (tutti i 435 seggi della Camera e 34 su 100 seggi del Senato). E’ a questo livello che i Justice Democrats stanno lavorando, mentre capiscono da che parte schierarsi sui candidati presidenti (la prima esperienza politica di Chakrabarti è stata nella campagna di Bernie Sanders, nel 2016). La lista dei democratici che devono affrontare le primarie è ogni giorno più lunga, i Justice Democrats vogliono replicare l’arrembaggio di Ocasio-Cortez a New York, che per ora è stato l’unico caso di successo di questo esercito del “real change” – l’endorsement ad altre 12 candidate alle elezioni del novembre dello scorso anno è arrivato dopo, l’unica campagna elettorale seguita dall’inizio alla fine da Chakrabarti (in persona) è quella di Ocasio-Cortez. Nessuno è al sicuro, i Justice Democrats stanno studiando la mappa elettorale con soltanto un’idea in testa: mettere in difficoltà e magari sconfiggere tutti i deputati che non si sono mostrati abbastanza radicali nei loro voti e nei loro posizionamenti al Congresso. Essere bipartisan e dialoganti (anche in politica estera, anche su Israele) è un vizio inaccettabile per i Justice Democrats, significa non voler affatto un cambiamento, e se i deputati della nuova ondata più radicale cercano di stare più sul vago, Chakrabarti no, commenta l’operato di molti democratici, come se stesse lavorando a tempo pieno alla stesura della lista degli sfidanti. Questo suo attivismo ha creato qualche problema alla stessa Ocasio-Cortez, che dice di non aver ancora “guardato bene” le primarie per il Congresso, ma si sa svincolare bene dalle polemiche: è comunque lei la prima a dire che l’anima del Partito democratico non basta, ci vuole il corpo: facce, parole e storie del “real change”. E se la premessa è sbagliata, se l’elettorato democratico non è così radicale? Lo sapremo soltanto alla prossima elezione, dice Chakrabarti, e chissà se a sentirsi minacciati sono più i democratici o Trump.