John McCallum (Foto LaPresse)

L'ambasciatore che consigliava la Cina e altri casi di influenze straniere

Giulia Pompili

La vicenda di McCallum è l'ennesima dimostrazione della strategia di Pechino: costruire rapporti con l’establishment per fare i propri interessi

Roma. “John McCallum sembra essere l’unica persona in Canada che sa che cosa fare della nostra relazione con la Cina”, scriveva qualche giorno fa il quotidiano canadese Globe and Mail, non senza ironia. McCallum è l’ex ambasciatore di Ottawa in Cina, licenziato dal premier Justin Trudeau a fine gennaio dopo la sua difesa spericolata della direttrice finanziaria di Huawei, Meng Wanzhou, arrestata a Vancouver su richiesta dell’America e da sette mesi agli arresti domiciliari in Canada. Nel caos diplomatico successivo a quel fermo, con il paese nel mezzo della guerra tech tra America e Cina, l’ambasciatore aveva consigliato al suo governo di non procedere con l’estradizione.

 

Nel frattempo, però, la reazione della Cina alla posizione canadese si è trasformata in un incubo diplomatico per Trudeau. Solo quattro giorni fa, Pechino ha arrestato un terzo cittadino canadese, dopo i casi di Michael Kovrig, ex diplomatico e ricercatore, e l’imprenditore Michael Spavor, accusati di spionaggio. Sollevato dall’ingombrante ruolo di ambasciatore, McCallum in un’intervista al South China Morning Post ha detto candidamente di aver “avvertito” i funzionari cinesi di evitare ulteriori “punizioni” nei confronti del Canada, dopo il caso di Meng Wanzhou, dicendogli letteralmente: “Tutto ciò che farete contro il Canada aiuterà i conservatori, che sono meno amichevoli con la Cina rispetto ai liberali”. Il caso è diventato politico, e i conservatori hanno chiesto formalmente all’agenzia d’intelligence canadese di investigare su McCallum e sul suo suggerimento che neanche troppo velatamente risulta un’interferenza sulle elezioni federali che ci saranno il 21 ottobre prossimo.

 

Ieri sulla rivista canadese Maclean’s, Terry Glavin scriveva che passare da ambasciatore al ruolo di consigliere speciale per un paese straniero è già grave, ma molto di più succede quando alcuni funzionari si trovano a promuovere i progetti dei paesi stranieri in virtù di una “relazione amichevole”, spesso supportata da finanziamenti poco leciti – ma quasi sempre legali. “Quando era parlamentare, McCallum ha ricevuto 73 mila dollari in viaggi gratuiti in Cina offerti dal governo cinese”, e ora lavora allo studio legale McMillan LLP come consulente per gli affari cinesi. È una cosa che succede sempre più spesso anche in Europa, perfino in Italia, con politici e sottosegretari folgorati sulla Via della Seta. “Le iniziative di Ottawa contro le interferenze straniere nelle elezioni si sono concentrate finora sulla disinformazione in stile russo e sulla cybersicurezza. Ma la situazione del Canada è sempre più simile a quella australiana”. E l’Australia in questo è un modello, perché il metodo che la Cina ha usato lì in passato è lo stesso che viene usato altrove: si tratta di costruire rapporti privilegiati con politici e membri dell’establishment e promuovere la propria visione del mondo.

 

A fine 2018, Canberra si è dotata di una legge sulla Trasparenza delle influenze straniere, uno strumento per controllare chi paga cosa ai funzionari pubblici, e per mostrare “la natura e il tipo di influenza che i paesi stranieri hanno sui processi politici australiani”. Subito prima dell’entrata in vigore della legge, diversi ex politici e funzionari australiani hanno lasciato i loro incarichi di prestigio. Andrew Robb, ex ministro del Commercio australiano, si è licenziato dalla Landbridge group, di proprietà cinese, dove aveva una consulenza da quasi 800 mila euro l’anno; John Brumby, ex capo del governo di Victoria, già super promotore della Via della Seta cinese (“L’Australia deve abbracciare questa opportunità a tutti i costi!”, diceva spesso), ha lasciato il ruolo da capo di Huawei Australia; l’ex ministro degli Esteri di Canberra, Bob Carr, si è dimesso da direttore dell’Australia-China Relations Institute, un think tank che è stato in passato accusato di ricevere cospicui finanziamenti da imprenditori cinesi per poi “promuovere” la “voce della Cina” in Australia. Robb, Brumby, Carr hanno tutti negato che le loro dimissioni avessero qualcosa a che fare con la nuova legge introdotta a Canberra, ma il sospetto è circolato sulla stampa australiana.

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  • Giulia Pompili
  • È nata il 4 luglio. Giornalista del Foglio da più di un decennio, scrive soprattutto di Asia orientale, di Giappone e Coree, di Cina e dei suoi rapporti con il resto del mondo, ma anche di sicurezza, Difesa e politica internazionale. È autrice della newsletter settimanale Katane, la prima in italiano sull’area dell’Indo-Pacifico, e ha scritto tre libri: "Sotto lo stesso cielo. Giappone, Taiwan e Corea, i rivali di Pechino che stanno facendo grande l'Asia", “Al cuore dell’Italia. Come Russia e Cina stanno cercando di conquistare il paese” con Valerio Valentini (entrambi per Mondadori), e “Belli da morire. Il lato oscuro del K-pop” (Rizzoli Lizard). È terzo dan di kendo.