©Badiucao 2015 (per gentile concessione dell'autore)

I muri di Hong Kong sono la nostra speranza contro Pechino, dice Badiucao

Giulia Pompili

Uno dei più famosi artisti e dissidenti cinesi ci racconta le proteste e i Lennon Wall, i muri della speranza sparsi per tutta la città (e anche all'estero). La storia del Banksy cinese che ha deciso di mostrare il suo volto

Roma. Uno dei simboli delle proteste che ormai vanno avanti da più di tre mesi a Hong Kong è un muro. Anzi, molti muri, perfino in altre città, coperti di post-it e graffiti. Un’opera colorata e diffusa, fluida, e a guardarla sembra quasi che sia la protesta stessa a diventare tangibile, con un messaggio non mediato, d’impatto, che suscita un’emozione irrazionale e profonda, che poi è il compito dell’arte. Sono muri periodicamente vandalizzati da chi non condivide quel desiderio di libertà, ma poi di volta in volta ricostruiti spontaneamente, proprio come fanno certe proteste e certi cambiamenti inarrestabili. Il Lennon Wall di Hong Kong è ispirato al primo e più famoso che nacque spontaneamente nel 1980 nella Praga comunista. Dopo l’assassinio di John Lennon, i gruppi pacifisti presero come riferimento un muro vicino all’ambasciata di Francia, nel quartiere di Malá Strana, per lasciare frasi delle canzoni dei Beatles e messaggi di libertà. Ancora oggi quel muro è uno dei luoghi simbolo della primavera di Praga. Nel 2014, durante la Rivoluzione degli ombrelli, un gruppo di attivisti replicò l’iniziativa sul muro di una scala nell’area occupata di Admiralty. Si dice che sul primo post-it ci fosse scritto: “Perché siamo qui?”. Seguirono decine di migliaia di messaggi.

 

  

In questa nuova ondata di proteste, i Lennon Wall si sono moltiplicati, e sono apparsi in varie zone di Hong Kong ma anche all’estero: Taipei, Berlino, Londra, Melbourne. Un’illustrazione che circolava molto online nelle scorse settimane mostrava il presidente cinese Xi Jinping e la chief executive di Hong Kong, Carrie Lam, con la schiena coperta di post-it colorati. L’autore della vignetta è l’artista e attivista Badiucao, tra i più celebri dissidenti cinesi della nuova generazione. “Queste proteste non riguardano soltanto la legge sull’estradizione in Cina”, dice Badiucao in una conversazione telefonica con il Foglio, “sono molto più profonde. E’ la paura che l’ombra di Pechino riesca definitivamente a mettere in discussione l’autonomia di Hong Kong. Basta pensare alla mia esperienza: già da tempo la libertà d’espressione è a rischio”. 

 

In una delle sue ultime vignette Badiucao ha disegnato Carrie Lam insieme con Li Peng, primo ministro della Repubblica popolare cinese dal 1987 al 1998, “il macellaio” responsabile del massacro di Tiananmen del 1989, la cui morte è stata annunciata ieri dal governo di Pechino. Aveva 90 anni (per gentile concessione dell’autore)

 

Fino a pochi mesi fa l’identità di Badiucao era segreta. L’artista, nato a Shanghai trentatré anni fa, una laurea in Legge conseguita in Cina, da dieci anni si è trasferito in esilio Australia. Nel frattempo poteva continuare a disegnare fumetti politici grazie all’anonimato, un po’ come un Banksy – ma con molto di più da perdere. A ogni evento pubblico indossava una maschera colorata. Poi è successo qualcosa: lo scorso anno, a novembre, era prevista una mostra a Hong Kong con le sue opere. All’ultimo momento gli organizzatori sono stati costretti ad annullarla per “motivi di ordine pubblico”. Un metodo che conoscono bene gli artisti invisi al governo di Pechino, sistematicamente silenziati e censurati. Nel periodo successivo a quella censura Badiucao è sparito dalla circolazione per poi ripresentarsi, sei mesi dopo, con un documentario sulla vicenda. Si chiama “China’s Artful Dissident”, diretto dal regista australiano Danny Ben-Moshe, è stato trasmesso sulla Abc Australia nei giorni del trentesimo anniversario del massacro di Piazza Tienanmen. Nel film, per la prima volta, Badiucao ha deciso di mostrare il suo volto. “Rivelare la mia identità è stato un passaggio fondamentale della mia vita”, dice l’artista al Foglio, “sapevo che dopo l’annullamento della mostra la mia copertura era già compromessa, e sapevo che rivelarmi avrebbe potuto essere una mossa rischiosa. Ma ho deciso di liberarmi, e finalmente fare attivismo a volto scoperto, parlare con la gente, fare arte. E’ stata la decisione giusta e non ho rimpianti, ma l’altro lato della medaglia è che perfino qui a Melbourne ho subìto intimidazioni”, con “strani personaggi a osservarmi, automobili parcheggiate fuori casa, e attacchi informatici – perfino qui devo usare il vpn per connettermi a internet”.

 

Sabato scorso Badiucao ha inaugurato un Lennon Wall a Melbourne, con l’aiuto della comunità locale, non solo hongkonghese ma anche dei cinesi immigrati: “E’ interessante vedere come i messaggi di solidarietà online possono diventare reali”, dice l’artista. Ma come fa un’idea così semplice a essere così potente dal punto di vista della comunicazione? “E’ come una piattaforma pubblica di opinioni, un social network, ma fisico, non virtuale. Diciamo sempre che la gente non ha voglia di incontrarsi da quando c’è internet e la tecnologia, ma non è così. Resiste questo istinto di essere presenti, compiere delle azioni, dare segnale della propria partecipazione”. Uno dei motti delle proteste di Hong Kong è ispirato al “sii come l’acqua” di Bruce Lee, “e il muro è così, è flessibile, è immediato, è veloce lasciare un messaggio, e in questo modo sfuggire all’identificazione”, spiega Badiucao. Molti attivisti pro-Pechino, nei giorni scorsi, hanno vandalizzato i Lennon Wall di Hong Kong, ma perfino a Melbourne, racconta Badiucao, ci sono stati problemi di intimidazioni e persone che si avvicinavano con la macchinetta fotografica, probabilmente per schedare gli organizzatori del muro di solidarietà australiano. Quei post-it colorati, però, insieme con le illustrazioni di Badiucao, funzionano meglio di tutte le parole che il governo di Pechino riesce a censurare: “Come visual artist, l’idea di ricoprire un muro, un muro!, con dei messaggi di speranza è una delle cose più romantiche e poetiche che si possa immaginare”.

  • Giulia Pompili
  • È nata il 4 luglio. Giornalista del Foglio da più di un decennio, scrive soprattutto di Asia orientale, di Giappone e Coree, di Cina e dei suoi rapporti con il resto del mondo, ma anche di sicurezza, Difesa e politica internazionale. È autrice della newsletter settimanale Katane, la prima in italiano sull’area dell’Indo-Pacifico, e ha scritto tre libri: "Sotto lo stesso cielo. Giappone, Taiwan e Corea, i rivali di Pechino che stanno facendo grande l'Asia", “Al cuore dell’Italia. Come Russia e Cina stanno cercando di conquistare il paese” con Valerio Valentini (entrambi per Mondadori), e “Belli da morire. Il lato oscuro del K-pop” (Rizzoli Lizard). È terzo dan di kendo.