Avere occupato la Banca centrale è controproducente per Erdogan
La crisi economica in Turchia rende necessario un intervento forzoso per salvare il salvabile
Roma. Il problema dell’indipendenza della Banca centrale in Turchia è tornato alla ribalta a seguito della sostituzione del governatore Murat Cetinkaya, licenziato il 6 luglio, con Murat Uysal, una decisione presa con decreto presidenziale di Recep Tayyip Erdogan. Deluso da una politica monetaria restrittiva (tassi fino al 24 per cento), mirata a porre un freno all’inflazione galoppante, il governo di Ankara mira a rilanciare la crescita alla stregua di quanto avvenuto durante gli ‘anni ruggenti’ dei primi mandati. Il decreto presidenziale assicura che la Banca centrale turca “continuerà ad applicare in modo indipendente strumenti di politica monetaria per mantenere la stabilità dei prezzi”, ma con Uysal la banca ha deciso giovedì di stare alle indicazioni del presidente: ha tagliato i tassi di riferimento dal 24 per cento al 19,74, di 4,25 punti, segnando il più rilevante taglio dal 2002, anno in cui la Banca centrale ha adottato lo standard dell’inflation targeting. In questa fase storica il consenso politico passa per i successi economici. Forte e rassicurata dalla crescita economica sostenuta, la classe media non aveva mancato di sostenere il partito del presidente (Akp) nelle scelte politiche perseguite nel corso degli anni. La recente sconfitta del partito di maggioranza ad Istanbul, la più importante piazza economica e finanziaria del paese, dimostra come l’incantesimo della crescita perenne, decantato da un esecutivo sempre più in difficoltà, sia stato ormai spezzato. La classe media non crede più alle favole e vuole risposte concrete.
Mettere le mani sulla Banca centrale, minandone così la propria indipendenza, pone l’economia turca in una sfera di forte incertezza, rischiando di danneggiare quella stessa borghesia che Erdogan tenta di riconquistare, per esempio mettendo sotto pressione i risparmi. Secondo Reuters, il governo turco era in procinto di trasferire circa 8 miliardi di dollari (46 miliardi di lire turche), in riserve legali a disposizione del proprio bilancio in sofferenza nonché per mitigare gli effetti recessivi in corso: roba da ancien régime.
Il problema si complica se teniamo in considerazione il pesate debito privato. Quasi il 60 per cento del settore privato in Turchia si è indebitato a lungo termine in dollari e per circa il 34 per cento in euro. Solamente per una cifra vicina al 4 per cento in lire turche. Nonostante si cerchi di ridurre tale esposizione, figlia dell’epoca florida dei ‘tassi zero’ e del Quantitative easing massiccio a opera della Federal Reserve a partire dallo scoppio della crisi nel 2008, una politica monetaria restrittiva interna può aiutare queste imprese a riequilibrare i conti e ad aumentare la fiducia degli investitori, per convincerli a non lasciare emigrare i propri capitali.
La storia bancaria della Turchia rende il governo centrale assai geloso del proprio controllo sull’istituto di emissione. La prima banca centrale moderna del paese risale al 1863, quando un gruppo di capitalisti e banchieri franco-britannici iniziò a gestire tale istituto (noto come Banca Imperiale Ottomana) per conto del governo del Sultano. La povertà del sistema finanziario turco a seguito della creazione della Repubblica di Turchia spinse i vari governi a sostenere a più riprese tale settore così vitale per la crescita del paese. Tale ingerenza e modus operandi sono rimasti nel Dna dei vari governi succedutisi nel corso dei decenni. I prestiti del Fondo monetario internazionale a cavallo del secolo, dopo una profonda crisi bancaria, e la necessità di allinearsi alle politiche economiche e commerciali mondiali e di convergenza europea, resero i governi di Ankara più prudenti nell’influenzare le politiche perseguite dalla Banca centrale e quelle di investimento da parte del settore bancario privato. Il sistema venne profondamente riformato. La sottocapitalizzazione cronica e la mancanza di dinamismo hanno reso tutto il sistema bancario, volenteroso di sostenere la poderosa crescita economica a partire dagli anni Duemila, assai disposto ad aprirsi alle partecipazioni estere con la compiacenza del governo. L’aumento di capitale estero non ha fatto che integrare il paese sempre più nel sistema mondiale a spese del controllo governativo su tale settore strategico.
La recente crisi economica in Turchia rende però nuovamente necessario un intervento forzoso presso l’istituto di emissione con lo scopo di tenere alto il consenso del governo, o quantomeno per salvare il salvabile in termini di potere politico. Tale azione, che mira a ridurre i tassi di interesse, oltre a minare la fiducia internazionale nel ‘sistema paese’, rischia di porre nuovamente sotto pressione l’ingente debito privato (con ripercussioni anche sulla vendita e sul valore dei titoli di debito pubblico) e di incoraggiare la fuga di capitali verso lidi più sicuri. Un’ingerenza di campo così forte da parte del governo di Ankara potrebbe rivelarsi controproducente: un boomerang che rischia di mettere una pietra tombale sul consenso che il mondo degli affari aveva riservato per più di un decennio al nuovo Sultano.
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