Non c'è solo il biondo. La novità inglese si chiama Jo, e occhio agli spigoli
I lib-dem della Swinson sono la pozione che può risvegliare un paese immerso nella sua indecisione, spaccato a metà
Roma. Prendiamo da giorni le misure a Boris Johnson, il neopremier britannico che vuole fare la Brexit in novanta giorni e che conta talmente tanto sulle proprie capacità da negoziatore – non v’è traccia nella sua storia recente di queste capacità – che sta anche pensando di prendere un cucciolo di cane a Downing Street: ci penserà lui a farlo andare d’accordo con Larry-the-cat, l’inquilino più fotografato del palazzo. Prendiamo da giorni le misure senza capirci granché, perché la retorica è tornata a dominare i fatti pure se ci pare di sapere già come va a finire, e forse stiamo perdendo tempo: la novità oggi della politica britannica immota è un’altra, ha quindici anni di meno rispetto a Boris e una foto ricordo dei suoi primi passi da attivista con una maglietta con su scritto “I’m not a token woman”, non sono la donna che dovete mettere nelle foto – o nei partiti o nei board delle aziende – soltanto per poter dire: non siamo tutti maschi, guardate c’è pure lei. La novità è Jo Swinson, eletta questa settimana leader del Partito liberaldemocratico inglese, trentanove anni, la fama di secchiona e soprattutto di una donna che sa riconoscere il momento giusto, il momento adatto.
La Swinson non vuole mai trovarsi impreparata, studia ogni dossier fino allo sfinimento, soprattutto dei suoi collaboratori, che in passato si sono anche lamentati parecchio dei suoi modi bruschi e a tratti insolenti. Una volta ha fatto piangere una sua collaboratrice, proprio nei giorni in cui andava in Parlamento a discutere di pari opportunità, un cortocircuito tra sessismo e femminismo di cui soltanto le donne conoscono la potenza (oppure quegli uomini che in questi giorni hanno chiesto alla Swinson: “ti senti più liberale o più femminista?”). Lo scandalo durò poche ore, alla Swinson è rimasta appiccicata l’etichetta di donna burbera e spigolosa, ma non le dà poi così fastidio. Da molti anni circolava il suo nome per la leadership, ma lei si sottraeva, rimandava, diceva: aspettiamo ancora un po’. Lo ha fatto per ragioni familiari – il suo secondo figlio è nato l’anno scorso – e perché pensava che l’occasione buona non fosse ancora arrivata: i Lib-dem dovevano ancora pagare la sanzione dell’elettorato che ha mal digerito la convivenza con il Partito conservatore di David Cameron, quel governo che incidentalmente ha anche preso la decisione di organizzare il referendum sulla Brexit.
Il momento giusto è arrivato adesso, cioè nel momento in cui i due partiti tradizionali del Regno Unito sono in crisi e assieme a loro lo è anche il Parlamento, a causa dell’incapacità di portare a compimento la volontà popolare – o di ribaltarla, al massimo. Oggi i Lib-dem sono invece diventati il partito che devi votare se vuoi ribaltare la Brexit, ed è questo l’attimo da cogliere per provare a scardinare in un colpo solo la retorica corrente sul divorzio dall’Ue e il bipartismo semiperfetto del sistema britannico. Il rischio-meteora è evidente, ma è interessante come la Swinson, colto l’attimo, stia cercando di sfruttarlo: con la denuncia. La denuncia delle fantasie-bugie del premier Johnson e dell’ambiguità di Jeremy Corbyn, leader del Labour, che ancora non si sa se è contro o a favore della Brexit. Come spesso accade in questi casi, al momento la Swinson sembra fare più il gioco del primo che del secondo, così secondo i giornali e i commentatori di sinistra la nuova leader dei Lib-dem è quanto di peggio potesse capitare al paese, quasi peggio di Johnson. Chi leva la maschera non è sempre un eroe, ma in questo caso la Swinson sembra l’unico antidoto esistente al ripetersi delle dinamiche del 2016, il terzo partito che va oltre il tribalismo, la pozione che può risvegliare un paese immerso nella sua indecisione, spaccato a metà.