Il tweet totalitario
Un libro denuncia la dittatura del demos, un mostro con una testa liberale e una populista
Lo sghembo percorso che Kevin D. Williamson traccia nel suo ultimo libro inizia con le scimmie di New Delhi, “l’equivalente dei ratti di New York con un quoziente intellettivo alto e il pollice opponibile” che vengono incautamente riverite per ragioni religiose e civili. I turisti lanciano loro hamburger di McDonald’s, circostanza che le rinvigorisce e le conforta nel loro scimmiesco proposito di infastidire le persone alla ricerca di cibo. Le ben pasciute e coccolate bestiole che circolano soprattutto attorno ai templi, scrive Williamson, passano le loro giornate a eiaculare, lanciare cacca, inseguire persone con il pranzo nel sacchetto, eiaculare, lanciare cacca, e così via. Vivere in mezzo a loro, dice, “è un po’ come lavorare all’Atlantic”.
Lo scorso anno Williamson ha lavorato per quella che chiama “Questa Augusta Pubblicazione” per tre giorni, poi è stato licenziato. Il rapporto professionale è durato anche più di quanto il giornalista immaginasse. Williamson, conservatore colto, dotato di penna tagliente e “corrispondente ramingo” del più importante magazine della destra americana, la National Review, non corrispondeva proprio all’identikit ideologico del mensile della sinistra intellettuale, ma a un certo punto da quelle parti circolava una pelosa voglia di pluralità di voci e idee. “La campagna per cacciarmi inizierà undici secondi dopo l’annuncio della mia assunzione”, disse allora al direttore, Jeffrey Goldberg. Lui minimizzò: “Non sarà così male. L’Atlantic non è il New York Times, non è la chiesa dei liberal”. E invece.
Le scimmie indiane passano le giornate a eiaculare e lanciare cacca. Vivere in mezzo a loro “è come lavorare all’Atlantic”
Williamson fu cacciato perché in una conversazione su Twitter su aborto e pena di morte aveva scritto che “la legge dovrebbe trattare l’aborto come qualunque altro omicidio”. Alla richiesta di chiarimenti sulla pena da comminare, rispose che “aveva in mente l’impiccagione”, spiegando: “Ho un giudizio molto contrastato sulla pena di morte in generale, ma trattare l’aborto come un omicidio significa esattamente ciò che significa”. Goldberg non lo licenziò per quei tweet, ma per la tempesta di reazioni che gli si scatenò contro, guidata dalla furia giacobina del comparto dei millennial, generazione che non perdona i dissensi ideologici che i loro padri accoglievano come fatti inevitabili, e perfino desiderabili, del dibattito razionale. Il tutto condito dalle solite minacce nemmeno troppo velate di inserzionisti che ci avrebbero pensato due volte a contribuire a un giornale che aveva accolto un antiabortista, pur definito dalla direzione uomo di “acuta forza intellettuale”.
Alla redazione, giustificò la decisione di licenziarlo con il fatto che alcuni interventi radiofonici di Williamson lo avevano convinto che non si era trattato soltanto di uno scivolone da social, un cinguettio eccessivamente virulento indotto dalla piattaforma che trasforma anche i più posati pensatori in troll assetati di visibilità. Il giornalista ci credeva per davvero, e perciò il suo contratto andava stracciato (ironia: Williamson era stato assunto proprio perché aveva convinzioni in contrasto con quelle della maggioranza della redazione). Una delle obiezioni, piuttosto immediata, l’ha presentata a Goldberg subito: e Christopher Hitchens, allora? Diceva cose infuocate sull’islam, sosteneva le guerre di Bush, fustigava le scritture ebraiche, trattava Madre Teresa di Calcutta infinitamente peggio di come vengono trattate le scimmie indiane. La risposta di Goldberg è un saggio della logica tribale che guida ogni rispettabile movimento di omologazione del pensiero: “Lui era parte della famiglia. Tu no”.
L’autore annuncia l’avvento dell’oclocrazia, dittatura condivisa da liberali e populisti. Al fondo del problema, al solito, c’è Lucifero
Il libro di Williamson, intitolato “The Smallest Minority: Independent Thinking in the Age of Mob Politics”, non è un racconto della sua tormentata vicenda. Non è un libro-denuncia delle scimmie di New Delhi che popolano le redazioni, né un memoir improntato alla lamentela (dice che lo scriverà, un giorno, ha già il titolo: “La pistola non sapeva che ero carico”) ma il suo brevissimo ingresso nelle auguste stanze del giornalismo che benpensa è più semplicemente incastonato come un episodio edificante dentro una trama molto più ampia. Questa trama ha al suo centro le distruttive dinamiche collettive, amplificate dalla logica perversa dei social, che detestano il pensiero indipendente della “minoranza più piccola”, cioè il singolo, e tendono a omologarlo. Se non ci riescono, s’adoperano per mostrificarlo e distruggerlo.
Per illustrare il concetto, l’autore non sceglie quasi mai la via metaforica, l’arzigogolo colto e rarefatto. S’incontrano passaggi come questo: “Tutti sanno che sono un mostro. Per ‘tutti’ intendo tutti i buoni, rispettabili, seri lettori di giornali analogici, e per ‘tutti i buoni, rispettabili, seri lettori di giornali analogici’ intendo voi atavici esemplari onanisti là fuori nelle selve lanose d’America, e con ciò intendo voi nullità che vi grattate le palle a Brooklyn o Guymon, in Oklahoma, a seconda della tribù a cui appartenete, che seguite ossessivamente i litigi intra-mediatici sui social media, facendo il tifo per quella che credete sia la vostra parte come una banda di supercazzoni attempati con le gambe tatuate che urlano guardando la partita di football in qualche bar di periferia e si gustano una buona bottiglia di illusioni di solidarietà come se Tom Brady o Le’ Veon Bell vi avessero fatto addosso una pisciata da cavallo da un’altezza considerevole”.
Il libro di Kevin Williamson “The Smallest Minority” è un saggio sul totalitarismo mascherato da collezione di digressioni
L’autore sapientemente vernicia questo saggio come una collezione di colorite digressioni che sembrerebbero, sulle prime, depotenziare l’argomentazione più profonda, ché a una disamina distratta si corre il rischio di guardare ogni singolo albero e di perdere di vista la foresta. Ma il testo è dotato di una coerenza interna ferrea, e l’autore si segnala per la sua qualità di riccio, non di volpe. Si tratta, a conti fatti, di un libro sul totalitarismo. Non il totalitarismo novecentesco, con le epurazioni, i massacri, le forme coercitive di controllo e i deliri intorno alla rifondazione di un ordine razziale o sociale, ma una specie di regime diffuso, un baco nel sistema democratico-liberale che ha lasciato libero sfogo alle forze della “mob politics”, la politica dell’orda o della massa che impone un pensiero unico con metodi polizieschi. Manganellate e purghe sono state sostituite con tweet e meme, gli strumenti dell’“antidiscorso”, una forma di comunicazione “concepita e utilizzata per prevenire lo scambio di informazioni, invece di facilitarlo, un’arma di distruzione intellettuale di massa: la bomba del cretino”. Armati di tale potente ordigno, milizie di sedicenti intellettuali segnano il confine fra le idee permissibili e quelle vietate. Non è una logica molto diversa da quella dei regimi che bruciavano i libri nelle piazze: “Il senso di bruciare i libri non è mai stato quello di impedire realmente che quei volumi venissero diffusi e letti, ma fare una dichiarazione pubblica su quelle opere e il loro autore: è una forma più teatrale di ‘de-platforming’”.
Gli “antifa” vestiti di nero con gli anfibi chiodati che, benedetti dai guardiani del pensiero perbene – se non nei metodi, certamente negli scopi – impediscono con la violenza a Milo Yiannopolous o Charles Murray o qualunque altra voce sgradita di parlare nei campus americani sono il punto in cui il totalitarismo implicito si fa per un momento esplicito, cupamente saldandosi anche nelle forme esteriori con i suoi antecedenti del secolo scorso. E lo stesso vale per le masse trumpiane e nativiste, alimentate dal carburante della supremazia bianca, anche queste animate da un fanatismo politico che trova la sua reale cifra nel desiderio di essere sottomessi, non di sottomettere: “Il fanatismo in politica non discende da un profondo e sincero credo nell’idolo, deriva da un profondo e sincero bisogno di sottomettersi a qualcosa”. Entrambe le fazioni, quella insta-culturale e quella populista, si servono in modo precipuo degli stessi strumenti, i social media, che secondo l’autore sono stati indebitamente asserviti a uno scopo diverso da quello per cui erano stati concepiti. Erano mezzi di unione fra persone, strumenti di comunione, per quanto ridotti al suo simulacro, mentre vengono usati come metodi per dividere in tribù, denigrare e linciare, legittimare e squalificare, sparare il mondo in fazioni che si macerano nel risentimento e traggono piacere dalla punizione del prossimo. Williamson ricorda il caso esemplare del linciaggio social di una sconosciuta rappresentante di un’importante azienda che poco prima di decollare per un volo di undici ore ha twittato una battuta mal riuscita interpretata, tendenziosamente, in senso razzista. Prima che il suo volo atterrasse era stata già linciata da decine di migliaia di fustigatori sui social che chiedevano la sua testa in nome dell’universale condanna alle discriminazioni razziali. Non c’era bisogno di interpellarla, di chiedere le sue ragioni, di permetterle di spiegarsi: la sentenza era stata emessa e la pena contestualmente comminata, e lei non aveva nemmeno il wifi. Al suo arrivo ha scoperto di essere stata licenziata.
Il peccato originale dei guardiani del pensiero è “il desiderio di essere popolari”: “Vanno in televisione e parlano come persone che stanno correndo per un posto elettorale; il loro approccio agli avversari e rivali è più simile alla opposition research che a un’argomentazione razionale. Dove dovrebbe esserci conversazione, c’è soltanto imputazione”. I giornalisti politici sono i depositari supremi di questa mentalità avida di riconoscimento e legittimazione, che arricchiscono con una dimensione paranoica: si sentono sempre accerchiati, vessati, censurati dal potere: “La mente del giornalista politico americano è, nella sua spregevole unione di bisogno e arroganza, uno studio in miniatura della mente dell’uomo con il quale il giornalismo americano immagina di essere bloccato in uno scontro perenne: Richard Nixon”. Il loro campo di azione è quello che Williamson chiama “Instant Culture”, luogo immateriale dentro al quale si consuma la costrizione al conformismo secondo la logica dell’“illiberalismo informale”, cioè “la soppressione non governativa delle idee”. La pratica si svolge tranquillamente nel perimetro della democrazia che, avverte Williamson, “se non è situata nella cornice del liberalismo e dello stato di diritto, è soltanto un altro strumento per aggregare l’odio e le lamentele e organizzarle in repressione”.
Manganellate e purghe per imporre il pensiero unico sono sostituite con tweet e meme, le armi dell’“antidiscorso”
Williamson, nutrito da un solido apparato di letture, rispolvera il concetto schmidtiano di stato d’emergenza: ogni cosa, nel mondo dell’Instant Culture, assume un carattere emergenziale che giustifica l’intervento a massima velocità e tutta forza. E’ un’emergenza il razzismo, sono emergenze le discriminazioni, le offese nei libri di testo, sono emergenze le migrazioni, l’automazione del lavoro, la “cultura dello stupro” nelle università, la vessazione delle minoranze etniche e anche quella della maggioranza che, avendo imparato la lezione, si comporta come una minoranza. “Se desiderate sopprimere certe parole o certi punti di vista, tutto ciò che dovete fare è costruirci attorno un teatro affollato”, scrive, evocando la famosa analogia tracciata dal giudice della Corte suprema Oliver Wendell Holmes, che fece scuola sancendo la libertà di gridare “al fuoco!” in un teatro affollato soltanto in presenza di un “pericolo chiaro e imminente”. I fustigatori da tastiera sbandierano sempre un pericolo chiaro ed imminente, ma mentono sapendo di mentire: “Nessuno crede davvero che permettere ad Ann Coulter di tenere un discorso in un’università metta la repubblica a tre tweet dall’olocausto, e nessun adulto con un senso di dignità minimo e funzioni mentali normali dovrebbe essere trascinato nella pretesa che questo non sia che assurdità morale e nanismo mentale”.
Come uscire da questo circolo vizioso, da questo degrado da distruzione di vecchie certezze condivise che spesso l’autore paragona al decisivo passaggio dall’unità antropologica medioevale alla disgregazione individualista del Rinascimento? La pars costruens è il punto debole dello schema williamsoniano, che si appella alla “smallest minority”, alla persona individuale capace di elevarsi dalla massa urlante, come apripista di una possibile liberazione: “Nel contesto del nostro discorso politico – e questo è vero per il cittadino che prende sul serio la sua cittadinanza, come per lo scrittore e critico professionista – l’individuo è colui che può svincolarsi almeno in parte dalle richieste della sua tribù e classe e può provare a vedere le cose come sono, e a gridare ciò che vede”, scrive. E’ quasi inevitabile che la chiusura sia su Lucifero, nella sua veste miltoniana. Satana viene cacciato dal paradiso perché si è orgogliosamente rifiutato di servire l’ordine divino. Quel Lucifero ribelle risulta affascinante per l’uomo d’oggi, alla confusa ricerca di una ribellione: “Se il Lucifero di Milton ci sembra attraente, è perché nel nostro tempo l’Opinione Pubblica è Dio”.