C'è solo un parlamentare in Italia che vuole sapere che cosa succede a Hong Kong
Abbiamo parlato con Roberto Rampi, senatore del Pd, che ha presentato l'unica interrogazione parlamentare sul tema. La crisi con la Cina, la peggiore dal 1997, ci riguarda tutti. Eppure i nostri politici sulla faccenda non si esprimono
Roma. “Se solo le manifestazioni pacifiche avessero funzionato, non saremmo dovuti scendere in strada ogni settimana”, si leggeva su un muro di Hong Kong ieri, un messaggio rilanciato via Twitter da uno dei leader delle proteste del 2014, Joshua Wong. La protesta di ieri nell’ex colonia inglese è stata la più imponente e la più violenta dal 1997, quando la Gran Bretagna ha accordato il ritorno della regione alla Cina sotto la cornice della politica “un paese, due sistemi”. Era nell’aria: per il 5 agosto era convocato già da tempo uno sciopero al quale ha aderito larga parte della società civile. Le manifestazioni si sono moltiplicate in vari punti di Hong Kong, da nord a sud, da Tin Shui Wai a Admiralty, oltre duecento voli sono stati cancellati e gran parte del trasporto pubblico bloccato. Decine di persone sono state arrestate, e la polizia ha reagito in modo particolarmente violento, usando i gas lacrimogeni indiscriminatamente, costringendo le persone a scappare, a rifugiarsi al chiuso. Carrie Lam, capo dell’esecutivo di Hong Kong, è tornata davanti alle telecamere e per la prima volta ha usato velate minacce contro i manifestanti: state sequestrando la città da due mesi, se continuano le violenze la città sarà in una situazione pericolosa.
In una ancor più inusuale svolta, il governo di Pechino ha convocato per oggi una conferenza stampa durante la quale verranno “annunciate delle novità”. “E’ quello che mi spaventa di più”, dice al Foglio Roberto Rampi, senatore del Partito democratico e autore dell’unica interrogazione depositata al Parlamento italiano sulla situazione a Hong Kong. Per Rampi la Cina “vuole trasformare gli scontri violenti in una giustificazione per intervenire. La narrazione è quella complottista, degli ‘americani’ che ‘manovrano’ i manifestanti, ed è molto inquietante soprattutto per la nostra percezione”. A parte qualche dichiarazione molto cauta sui social network da parte per esempio dell’ex presidente del Consiglio Paolo Gentiloni, per la politica italiana le proteste di Hong Kong è come se non esistessero. “Abbiamo chiesto al governo in carica qual è la posizione dell’Italia rispetto a questa situazione. Cosa sa il governo e cosa intende fare. Con scarso esito, devo ammettere”. Per Rampi c’è scarsa consapevolezza di quel che rappresentano le manifestazioni: “La Cina è ormai un attore globale. Con Pechino bisogna parlare, bisogna negoziare, ma se sei dentro al sistema, soprattutto economicamente, è chiaro che devi dare delle garanzie a livello giuridico”.
Il riferimento è all’emendamento sulla legge sull’estradizione, poi sospeso, da cui è partita l’ultima ondata di manifestazioni: “E’ interessante anche per il nostro sistema: è come se stessimo perdendo la consapevolezza di quanto sia delicato per ognuno avere delle garanzie. Oggi il giustizialismo è dominante, l’idea è che se qualcuno è indagato è perché è colpevole, se chiedono l’estradizione è perché qualcosa avrà pur commesso”, una violazione dei basilari principi garantisti. E poi ci sono le relazioni con la Cina, quelle profonde e interessate, quelle che hanno portato alla firma dell’intesa sulla Via della Seta nel marzo scorso. Non esiste un dibattito pubblico sul tema dei diritti umani e dei princìpi e valori democratici quando si tratta con la Cina, e così nessuno si è accorto che nel mezzo della crisi di Hong Kong, per esempio, una delegazione di parlamentari italiani è volata a Pechino accolta affettuosamente da Guo Yezhou, vicedirettore del dipartimento di collegamento internazionale del comitato centrale del Partito comunista. Una settimana prima lo Spiegel raccontava del fatto che lo stesso Guo aveva fatto saltare un analogo incontro con i parlamentari tedeschi, perché si erano detti “vicini” alle istanze di Hong Kong. “Il tema su cui bisogna lavorare insieme in Europa è proprio quello dei diritti umani: se l’Unione si costruisce questo profilo avrà un ruolo, altrimenti lo scontro diverrà soltanto tra Cina e Stati Uniti, e noi diventeremo marginali”. Un mese fa era stata la volta di Manlio Di Stefano, sottosegretario grillino agli Esteri, che era volato a Hong Kong senza dire una parola sulla situazione politica, anzi, facendone quasi solo una questione di “ordine pubblico”.
Secondo Rampi, innovazione tecnologica, diritti umani e ambiente “dovrebbero essere al centro di un partito europeo, europeista, sul modello del partito dei verdi tedesco. Non è un caso se l’innovazione tecnologica serve ai regimi per restringere le libertà personali, ma all’interno di una cornice democratica li sviluppa”.