Fiori davanti al centro commerciale Walmart di El Paso (foto LaPresse)

Non esiste un terrorismo di serie B

Claudio Cerasa

Il dramma dell’estremismo suprematista non è internet, non sono le fake news, non sono le pistole ma sono i pistola che chiudono gli occhi di fronte a un’ideologia mortale. Trump, El Paso e le sciocchezze (anche liberal) sul rapporto causa effetto

Ragionare sulla strage della scorsa settimana al El Paso usando la chiave di lettura del rapporto causa-effetto è un modo come un altro di buttare la palla in tribuna, di speculare su un evento traumatico e di mettere un atto di terrorismo al servizio della propria campagna elettorale. Il rapporto causa-effetto applicato al caso di El Paso – dove un ragazzo di 21 anni, subito dopo aver pubblicato sulla rete un manifesto di quattro pagine contro “l’invasione ispanica del Texas”, è entrato con un mitra in un supermercato uccidendo ventuno persone e ferendone almeno ventisei – suggerirebbe di scaricare sull’internazionale sovranista le responsabilità morali della strage texana.

 

Ma il vero argomento che merita di essere messo a fuoco all’indomani del discorso dedicato da Donald Trump alla strage di El Paso (e a quella di Dayton) riguarda un punto particolare, e diverso, che ha a che fare con una chiave di lettura più efficace rispetto a quella pigra della causa-effetto: i teorici dell’effetto senza causa. Per quanto si possa non amare il presidente americano – e la sua pazza banda di sovranisti xenofobi al seguito – bisogna riconoscere che le stragi compiute dai suprematisti bianchi non sono una novità dell’epoca trumpiana (è successo anche ai tempi di Obama, di Bush e di Clinton) e in fondo lo stesso Anders Breivik ha ucciso in nome dell’antimulticulturalismo settantasette persone in Norvegia nel 2011 quando il ciuffo incendiario di Donald Trump era ancora lontano dalla Casa Bianca. Ciò che cambia rispetto al passato è che alla testa del paese-guida del mondo libero vi è un presidente che – pur condannando con forza, come ha fatto ieri, “il razzismo e il suprematismo bianco, ideologie sinistre che devono essere sconfitte” – non sembra interessato fino in fondo a indagare sulle origini del terrorismo suprematista.

 

Di fronte a ogni attentato di matrice islamista, Donald Trump non manca mai di ricordare come sia una vergogna concentrarsi sul problema del terrorismo senza prendere in considerazione il problema dell’islamismo. Al contrario, però, il presidente americano, e la sua simpatica banda di xenofobi al seguito, ogni volta che un suprematista colpisce tende a girare attorno al problema (anche nel potente discorso di ieri la parola terrorismo non è stata mai usata) e tende a individuare nel motore del terrore una qualche ragione diversa dall’ideologia.

 

“A premere il grilletto – ha detto ieri Trump – sono stati odio e instabilità mentale. Le fake news hanno contribuito enormemente ad alimentare una rabbia e una collera montate nel corso di molti anni. Dobbiamo fermare l’idealizzazione della violenza nella nostra società. Ciò include i videogiochi atroci e raccapriccianti che sono ormai all’ordine del giorno. Oggi è troppo facile per i giovani in difficoltà circondarsi di una cultura che celebra la violenza: dobbiamo riconoscere che internet ha fornito una via pericolosa per le menti disturbate radicalizzate”. Stabilire un rapporto causa-effetto tra il suprematismo politico e il suprematismo terroristico è un’operazione spericolata e sbagliata. Ma chiedere, come ha fatto ieri il Wall Street Journal, che i politici che individuano nel lessico dei terroristi alcuni tratti non estranei ai propri lemmi (“Sostituzione”, “invasione”) trattino tutti i terrorismi allo stesso modo è il minimo che si possa pretendere. E per farlo occorrerebbe riconoscere quello che oggi è invece difficile riconoscere.

 

Occorrerebbe riconoscere che i suprematisti non sono necessariamente pazzi, non agiscono necessariamente per frustrazione, non si muovono necessariamente come lupi solitari, non attaccano necessariamente in modo casuale, non sono necessariamente spinti all’omicidio dai videogiochi, ma uccidono persone sulla base di un’ideologia condivisa, globale, transnazionale, interconnessa, violenta che negli ultimi anni, in America, ha fatto più morti del terrorismo islamista. E i numeri in fondo parlano da soli. L’Fbi ha affermato di aver effettuato cento arresti legati al terrorismo interno negli ultimi nove mesi. L’Anti-Defamation League, nei giorni scorsi, ha ricordato che gli omicidi dei suprematisti bianchi negli Stati Uniti sono più che raddoppiati nel 2017, con gruppi estremisti di estrema destra e suprematisti bianchi che si sono resi responsabili del 59 per cento degli omicidi legati all’estremismo nel 2017, contro il 20 per cento dell’anno prima, e ha aggiunto che nel 2018 è stato registrato un aumento del 182 per cento della propaganda dell’odio rispetto all’anno precedente. Qualche mese fa l’Europol, l’agenzia di contrasto al crimine dell’Unione europea, ha calcolato che gli arresti degli estremisti di destra in Europa sono quasi raddoppiati nel 2017 rispetto al 2016. Lo scorso marzo, in Nuova Zelanda, pochi mesi dopo la strage di un suprematista bianco in una sinagoga di Pittsburgh, un altro suprematista bianco è entrato in due moschee a Christchurch uccidendo 49 persone. Prima aveva scritto di essersi ispirato a un’altra serie di attacchi di suprematisti bianchi compiuta negli anni passati in Norvegia, negli Stati Uniti, in Italia, in Svezia e nel Regno Unito – secondo un’indagine del New York Times, “almeno un terzo dei killer estremisti bianchi dal 2011 sono stati ispirati da altri che hanno perpetrato attacchi simili, hanno professato rispetto per loro o hanno mostrato interesse per le loro tattiche”.

 

Le motivazioni di queste stragi sono varie e sono spesso troppo contorte per essere ordinate in unico rigido schema. Il razzismo, la xenofobia, il suprematismo non nascono con Trump, lo sappiamo, ma gli amici di Trump devono ricordarsi che per tenere ben distinta la causa dall’effetto è bene ricordarsi di essere contro il suprematismo anche i giorni prima di una strage e non solo i giorni dopo. Il dramma del nuovo-vecchio terrorismo non è internet, non sono le fake news, non sono i giornali, non sono le pistole ma sono i pistola che giocando con il terrorismo di serie A e quello di serie B e si rifiutano ogni giorno di guardare in faccia la realtà.

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  • Claudio Cerasa Direttore
  • Nasce a Palermo nel 1982, vive a Roma da parecchio tempo, lavora al Foglio dal 2005 e da gennaio 2015 è direttore. Ha scritto qualche libro (“Le catene della destra” e “Le catene della sinistra”, con Rizzoli, “Io non posso tacere”, con Einaudi, “Tra l’asino e il cane. Conversazione sull’Italia”, con Rizzoli, “La Presa di Roma”, con Rizzoli, e "Ho visto l'uomo nero", con Castelvecchi), è su Twitter. E’ interista, ma soprattutto palermitano. Va pazzo per i Green Day, gli Strokes, i Killers, i tortini al cioccolato e le ostriche ghiacciate. Due figli.