La Putinomics va maluccio
Dalla Russia gli investitori scappano, la nazione non cresce e l’economia è legata alla sicurezza
Roma. Le condizioni per la crescita dell’economia russa ci sono tutte: inflazione ai minimi, il tasso di cambio del rublo ormai svincolato dai prezzi del petrolio, ci sono progetti di sviluppo e incentivi per gli imprenditori, il surplus di bilancio è al 2 per cento del prodotto interno lordo. La cornice sembra perfetta per presentare l’immagine di un paese in crescita e non quella di una nazione in cui ventuno milioni di persone, il 14,3 per cento dell’intera popolazione, vive sotto la soglia della povertà, che quest’anno è fissata a 10.753 rubli al mese (150 euro). Parlare di crescita è stato per molto tempo una delle priorità di Vladimir Putin, che nel 2012 aveva detto che in dieci anni il pil annuale sarebbe cresciuto del 6 per cento. Nel 2016 dovette ripresentarsi davanti alle camere con obiettivi ben più modesti, il 3 per cento, ma la previsione attuale non va oltre l’1 per cento, anche in presenza di alti prezzi del petrolio. Durante l’ultimo filo diretto con con gli elettori, l’appuntamento annuale che il presidente russo ha con i russi da diciassette anni, si è parlato molto di povertà: i russi chiedevano al presidente di migliorare le loro condizioni di vita, di portare luce e acqua in alcuni villaggi, di pensare alla sanità, agli asili. E’ colpa delle sanzioni, aveva risposto Putin per la prima volta, ma a ben guardare sono anche alcune politiche economiche ad aver bloccato l’economia russa, schiava ormai di un circolo vizioso che porta le famiglie a non spendere e gli investitori a non investire.
In un report dell’istituto Carnegie, la giornalista Alexandra Prokopenko spiega che negli ultimi cinque anni i redditi delle famiglie sono diminuiti, che il governo ha deciso di aumentare l’Iva e di continuare a consolidare la spesa di bilancio. I russi preferiscono non spendere e la riduzione della domanda si riflette sulla crescita economica. A gestire le politica della crescita sono il vice primo ministro e ministro delle Finanze Anton Siluanov e il ministro dello Sviluppo economico Maxim Oreshkin, che accusano le imprese private di “nichilismo” e la Banca centrale di aver dormito mentre stava scoppiando una bolla del credito ai consumatori.
Ma i principali ostacoli alla crescita russa sono: una debole concorrenza tra società private e statali, la presenza degli oligarchi, il sottosviluppo delle piccole e medie imprese, l’elevata percentuale di società statali inefficaci e i siloviki, i servizi di sicurezza, i veri autori della perdita di appetibilità della Russia, considerata un ambiente ostile per gli investitori. Secondo un sondaggio, il 71 per cento degli imprenditori ritiene le condizioni per fare affari in Russia sfavorevoli e uno su due crede che la situazione è destinata a peggiorare, soprattutto dopo il caso di Machael Calvey, l’imprenditore americano, fondatore della Baring Vostok, arrestato a gennaio. Sulla ricchezza della popolazione russa si gioca il futuro della nazione, il futuro politico. Le proteste a Mosca per chiedere elezioni libere sono un segnale importante, c’è interesse nei confronti della democrazia, ma è l’economia, la grande promessa del primo e secondo mandato di Putin, a poter determinare la fine del putinismo. A marzo la Rosstat, l’agenzia russa per le statistiche, aveva ritoccato le stime di crescita del paese per il 2018 rivelando il miglior risultato per l’economia russa degli ultimi sei anni: una crescita del 2,3 per cento, destando sorpresa persino gli economisti delle banche statali russe. Era successo che dopo mesi in cui l’agenzia continuava a diffondere dati negativi il Cremlino anziché pensare a una nuova politica economica aveva deciso di cambiare il direttore della Rosstat. Per affrontare i problemi dell’economia russa il governo avrebbe le possibilità, quel che manca è la volontà, e per ora la crescita è impigliata nelle maglie del sistema russo, che preferisce le misure cosmetiche alle riforme.