Trump è molto nei guai con i dossier Turchia e Iran (e pure il resto non va bene)
Erdogan ignora le richieste americane ed è pronto alla guerra contro i curdi, l’Iran respinge le offerte trumpiane
Roma. Il presidente americano, Donald Trump, sta perdendo le partite con l’Iran e con la Turchia del presidente Erdogan e sono sconfitte che si sommano ad altri fallimenti in politica estera in questi giorni. I cinesi hanno appena svalutato lo yuan, che è una contromossa molto dura in quella guerra commerciale con l’America che Trump già pensava di avere vinto a suon di dazi. La Corea del nord ha lanciato missili balistici a corto raggio per la quarta volta in meno di due settimane – con gittata sufficiente a colpire la Corea del sud e le basi americane – e tutti gli osservatori leggono questi test come messaggi di insoddisfazione contro l’Amministrazione americana. L’obiettivo di denuclearizzare Kim Jong Un è troppo lontano per essere raggiunto, a dispetto degli incontri personali e spettacolari. Per non parlare dell’offerta di mediazione a India e Pakistan sul dossier Kashmir, subito respinta. Mentre succede tutto questo, arrivano i brutti segnali da Turchia e Iran – che sono dossier meno seguiti ma sono lo stesso cruciali.
Domenica il presidente turco Recep Tayyip Erdogan ha annunciato che un’operazione militare turca per prendere una pezzo enorme del Kurdistan siriano potrebbe cominciare da un momento all’altro e di avere già avvertito Russia e America. Gli americani trattano da un anno con i turchi per scongiurare o almeno ritardare questa mossa, ma è chiaro che i negoziati non funzionano. Hanno offerto ai turchi una fascia di sicurezza profonda 14 chilometri da cui i curdi siriani si ritirerebbero e che passerebbe sotto il controllo misto di militari americani e turchi – che avrebbero anche la possibilità di smantellare tutte le fortificazioni curde vicino al confine.
Erdogan vuole invece una fascia di sicurezza profonda almeno 32 chilometri, per creare una zona cuscinetto tra il confine della Turchia e i curdi – che considera terroristi pericolosi perché affiliati al Pkk. In questa zona cuscinetto i turchi riverserebbero molti dei tre milioni di profughi siriani che da anni vivono in Siria e che i media della Turchia da qualche giorno trattano con una luce pessima, per farli diventare ancora più sgraditi a un’opinione pubblica che già non li ama. Sarebbe un’operazione di ingegneria etno-militare per togliere ai curdi la contiguità con la Turchia, rimpiazzare i curdi con arabi siriani e creare nello spazio così conquistato un nuovo territorio sotto il controllo dell’esercito turco. E’ molto probabile che la nuova area sarebbe consegnata ad alcuni reparti di quelle forze militari che un tempo erano ribelli contro il rais siriano Bashar el Assad ma che oggi sono diventate (anche) estensioni paramilitari della politica turca in Siria. Già hanno il controllo del cantone di Afrin, da cui i curdi sono stati cacciati con un’operazione simile nel gennaio 2018.
Trump a dicembre aveva annunciato dopo una telefonata con Erdogan il ritiro a sorpresa dei duemila soldati americani che assieme ai curdi controllano la Siria orientale, strappata battaglia dopo battaglia ai fanatici dello Stato islamico, e aveva detto che i turchi avrebbero pensato loro alla guerra contro lo Stato islamico. Il ritiro poi non è avvenuto – misteri della politica trumpiana – e i curdi con l’appoggio dei bombardieri e delle forze speciali americane hanno espugnato anche l’ultima zona in mano ai terroristi islamisti, a Baghouz. Adesso però il Pentagono dice che non si potrà opporre all’operazione turca in Siria. Di fatto, non riuscirà a fermare una guerra fra la Turchia (esercito più grande della Nato dopo quello americano) e i curdi che sono stati preziosi alleati nella guerra contro lo Stato islamico. E i curdi avvertono che in caso di conflitto non potranno fare la guardia ai campi dove custodiscono decine di migliaia di prigionieri dello Stato islamico, stranieri inclusi. Per lo Stato islamico è uno scenario da sogno: perdere la guerra nella Siria orientale a marzo, vedere la stessa zona precipitare nel caos di una nuova guerra nel giro di cinque mesi.
In Iran il presidente Trump voleva ripetere il miracolo mediatico compiuto in Corea del nord: incontri che erano considerati impossibili, strette di mano davanti ai giornalisti eccitati, immagini storiche. Ma il piano non sta funzionando. Due giorni fa il ministro degli Esteri iraniano, Javad Zarif, ha respinto un invito alla Casa Bianca – dopo essere stato colpito da sanzioni personali. Ieri il regime iraniano ha fatto sapere che la condizione preliminare per ogni eventuale incontro è la fine delle sanzioni. Se Trump vuole i flash dei fotografi e una visita storica a Teheran, prima dovrà annullare le sanzioni americane – incluse quelle ancora più dure che aveva aggiunto alle già esistenti. Se lo facesse, seguirebbe lo stesso percorso di Obama – che congelò le sanzioni nel luglio 2015 – ma senza nemmeno ottenere uno stop alla produzione di materiale nucleare. Difficile che accetti.