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Nella Londra pre Brexit c'è guerra tra populisti e Parlamento. Ricorda qualcosa?

Cristina Marconi

Il libro dell’estate e le scelte della regina

Londra. Mentre il resto del mondo legge romanzi gialli a pancia all’aria sulla spiaggia o in giardino, a Londra e in poche altre selezionate capitali è il manuale di procedura parlamentare il vero libro dell’estate. Da compulsare avidamente, alla ricerca di brividi che neppure in un thriller scandinavo. Ad esempio, poiché questa Brexit traboccante di democrazia per essere coronata ha bisogno di strumenti straordinari, tra cui la possibile sospensione del Parlamento, la lotta tra remainer e leaver si è sposata sul terreno dell’interpretazione di un testo, il Fixed-term Parliaments Act, alla ricerca delle possibili conseguenze della decisione di chiedere un voto di fiducia nei confronti del governo a settembre. Il tutto per evitare un divorzio senza accordo che Westminster non vuole ma che per tre anni non ha fatto nulla per scongiurare, tutta presa com’era a suddividersi in microfazioni mentre la belva populista cresceva al punto da convincere il paese che tagliare i ponti con il suo primo partner commerciale fosse una buona idea. La regina Elisabetta II la sua l’ha già detta – questi politici non sanno governare, o parole di simile significato, riferite da una “fonte impeccabile” al Times – e ogni tentazione di costringerla a un ruolo attivo è stata gelata da altre fonti altrettanto impeccabili che hanno fatto trapelare tutto il fastidio di Buckingham Palace anche solo per l’idea, oh dear!, che possa toccare a lei tendere una mano ai poveri remainer smarriti.

 

Il problema è che per Halloween bisogna essere tutti pronti, dolcetto o scherzetto, per la Brexit, e dietro ogni sforzo di trovare cavilli, inevitabilmente, c’è un uomo alla ricerca dei suoi full powers, pieni poteri. Qui si tratta di Boris, che dopo essersi insediato a Downing Street ha fatto capire che neanche le bombe riusciranno a farlo uscire e che neppure se perdesse la fiducia se ne andrebbe, lasciando due settimane per decidere se andare a elezioni o tentare un nuovo governo. Il cancelliere ombra John McDonnell ha rassicurato tutti spiegando che manderebbe Jeremy Corbyn “in taxi” a dire alla sovrana – immaginiamo un regale tamburellar di dita sulla porcellana cinese – di essere pronto a fare un governo. Altri scenari mirabolanti prevedono l’entrata in scena di una sorta di riserva della repubblica, o della monarchia in questo caso, come Kenneth Clarke o John Major, per un esecutivo di unità nazionale. Ma il vero elemento di suspense del giallo dell’estate è che pur essendo chiarissimo nel caso dell’omicidio-voto di sfiducia, lascia al fiuto degli investigatori capire cosa avverrebbe in caso di dimissioni: Boris potrebbe infatti indire spontaneamente un voto dopo il 31 ottobre, approfittando della campagna per far passare il no deal senza Parlamento. Ecco, questo è uno dei nodi su cui i Gran Maestri stanno concentrando tutti i loro sforzi esegetici: è possibile? Non è possibile? John Bercow, speaker della Camera, ha detto che userà “tutto il fiato che ha in corpo” per combattere l’ipotesi che i deputati vengano messi da parte, mentre Philip Hammond, che nei suoi anni al Treasury, pallottoliere alla mano, ha attaccato il no deal dal primo giorno con una coerenza commovente, ha detto che “qualunque idea di aggirare il Parlamento sciogliendolo, per esempio, e tenendo delle elezioni nel giorno dell’uscita provocherebbe una crisi costituzionale”.

 

Il placido Hammond ha anche attaccato Dominic Cummings, lo stratega politico di Boris, “non eletto” come i tanto vituperati eurocrati di Bruxelles, per il modo in cui sta cercando di arrivare al no deal col favor delle tenebre, facendo a Bruxelles richieste impossibili come l’eliminazione della clausola di salvaguardia sull’Irlanda. Poi, nella prima delle sue dirette Facebook, il premier Johnson gli ha risposto denunciando la “terribile collaborazione” di Hammond con “i nostri amici europei”, ancora convinti che “il no deal si possa bloccare in Parlamento”. Forse lui sa che Bruxelles, in questo, ha ragione? Oppure i lettori attenti hanno già capito che è lui ad avere il coltello dalla parte del manico? In questa confusione l’unica nota positiva è che, come in un sogno, Nigel Farage invece di mettere ulteriore zizzania va in giro sparandosi sui piedi e insultando icone nazionali come il santino pastello della regina madre accusandola di aver bevuto un po’ troppo nella sua lunga vita.