Il paradosso della Germania in crisi che finanzia il suo boia Trump
La locomotiva d’Europa ha bisogno di una revisione ma non riesce a trovare strategia migliore di comprare titoli americani
Milano. L’autunno dell’economia in Germania quest’anno è arrivato in anticipo. E l’inverno, ammoniscono gli esperti, promette di non essere affatto breve. A meno che la Banca centrale europea non ci metta una pezza, come lascia intendere un’intervista di Olli Rehn, falco finlandese della Bce già interprete, ai tempi in cui era commissario Ue, della linea del rigore teutonico che sul Wall Street Journal, all’indomani del dato negativo del pil tedesco (meno 0,1 a fine giugno) anticipa una serie di provvedimenti espansivi per ridare la carica all’Europa, a partire dalla locomotiva principale, quella di Berlino. Ma non sono pochi gli scettici a pensare che il motore del tedesco, colpito dal calo dell’export e dalla frenata del suo principale cliente, la Cina, abbia bisogno di un ripensamento profondo del suo modello. Sia la cancelliera Angela Merkel sia il ministro delle Finanze socialdemocratico Olaf Scholz respingono come un’eresia l’idea di chiudere in conti in rosso infrangendo il tabù del pareggio di bilancio. E l’opinione pubblica stenta ad accettare l’idea che il paese, vicino al pieno impiego e con una previdenza in ottimo stato, abbia bisogno di cambiare rotta. Ma, ammonisce Patrick Artus, capo economista della francese Natixis, troppa virtù può far male. “La Germania – dice – vanta un eccesso di risparmio pari all’8 per cento del suo prodotto interno lordo. Ma queste eccedenze, in assenza di investimenti, serve a finanziare il debito pubblico americano di cui Berlino è diventato assieme al Giappone il maggior finanziatore”.
Insomma, l’austera Germania dà una mano a Trump che un giorno sì e l’altro pure minaccia dazi e ritorsioni contro l’auto tedesca. In cambio, ammonisce sul Financial Times Christian Odendahl del Centre for European Reform (vicino ai Verdi), si moltiplicano i segnali di debolezza del sistema, dal calo della produttività (agli stessi livelli del 2002) al ritardo in alcune industrie chiave dell’economia digitale. Ma non meno importante il gap accumulato nelle infrastrutture fisiche, dalle rete ferroviaria ai ponti: è a rischio, secondo i dati ufficiali uno su otto dei 40 mila che collegano le sponde dei fiumi o corrono sulla rete stradale. Dietro l’incertezza scatenata dal calo delle esportazioni e dai continui ribaltoni nel mondo dell’auto che si sono susseguiti dal dieselgate in poi è così maturata una crisi sistemica che rischia di essere complicata dall’eventualità, ormai possibile se non probabile, di una hard Brexit che metterebbe a rischio anche il modesto obiettivo di crescita del 2019, uno striminzito mezzo punto percentuale.
A favorire il pessimismo contribuiscono vari fattori: le difficoltà della Cina che oggi cresce quasi solo nel servizi, l’area in cui il made in Germany è più debole, mentre l’industria, che fino al 2015 assorbiva investimenti al tasso del 20 per cento annuo in più, oggi frena. Senza dimenticare i problemi di competitività delle imprese. “Anche il mercato dl lavoro – nota Artus – è meno solido di quel che non appare ad un’analisi superficiale. Oggi i salari aumentano del 5 per cento, mentre la produttività scende del 5 per cento: a lungo andare non è sostenibile”. La locomotiva d’Europa ha bisogno di una profonda revisione. Più o meno come quella che, a cavallo del millennio, ha permesso di mettere le basi del boom di questo anni, frutto di moderazione salariale assieme ad una valuta debole rispetto alla forza dell’economia d’oltre Reno. Peccato che, contravvenendo alle regole comunitarie, la Germania abbia sfruttato le carte positive a sua disposizione per sviluppare il surplus commerciale più elevato del pianeta, premessa di squilibri che, a lungo andare, hanno colpito come i pilastri dell’economia, a partire dal sistema bancario che, vedi Deutsche Bank, ha preferito investire nel casinò di Las Vegas anziché guardare ai cugini europei.