Donald Trump (Foto LaPresse)

Perché comprare la Groenlandia non è solo (l'ennesima) provocazione di Trump

Massimiliano Trovato

Proprio dalla Danimarca gli Stati Uniti avevano già acquistato le Isole Vergini ma il governo groenlandese risponde: "Non siamo in vendita" 

Ci voleva Trump a rinfocolare la copertura giornalistica di un anemico weekend di fine estate. Le rivelazioni del Wall Street Journal, secondo il quale il presidente americano avrebbe ripetutamente sottoposto ai propri collaboratori, “con alterni livelli di serietà”, la suggestione di acquistare la Groenlandia dalla Danimarca, è stata accolta con un misto d’incredulità e sarcasmo. La battuta migliore l’ha offerta la candidata alle primarie democratiche Amy Klobuchar: “Che differenza c’è fra Trump e la Groenlandia? La Groenlandia non è in vendita”. Tuttavia, tra le molte pittoresche trovate dell’attuale inquilino della Casa bianca, questa non pare la più assurda.

 

L’idea che un territorio possa passare di mano con la stessa facilità di una villetta a schiera suona implausibile ai più. Eppure, come ha fatto notare il giurista della Duke University, Joseph Blocher, “gli Stati Uniti per come oggi li conosciamo sono stati modellati da compravendite di terreno”, tanto che più di metà dell’attuale estensione del paese si spiega con tre acquisti: il Louisiana Purchase del 1803 (controparte la Francia, 2,3 milioni di chilometri quadrati in cambio di 15 milioni di dollari); l’Alaska Purchase del 1867 (negoziato con la Russia, 1,5 milioni di chilometri quadrati al prezzo di 7,2 milioni di dollari) e il trattato di Guadalupe Hidalgo, che concluse la guerra messicano-statunitense nel 1848 (1,4 milioni di chilometri quadrati a fronte di 15 milioni di dollari).

 

E non mancano precedenti ancora più rilevanti. Proprio dalla Danimarca, gli Stati Uniti hanno acquistato nel 1917 le Isole Vergini, sborsando 25 milioni di dollari. E sono già stati due i tentativi di accaparrarsi la Groenlandia, entrambi infruttuosi: nel 1867, ingolosita dalla conquista dell’Alaska, ci provò l’Amministrazione di Andrew Johnson, che immaginava di ottenere anche l’Islanda; nel 1946, ritentò il segretario di stato di Truman, che mise sul piatto 100 milioni di dollari: offerta rispedita al mittente.

 

Era palese già allora, agli albori della Guerra fredda, come la posizione della Groenlandia la rendesse strategicamente preziosissima per la difesa degli Stati Uniti, che dagli anni 50 mantengono sull’isola un’importante base militare – la base aerea Thule – a circa 1.200 chilometri dal Polo nord. Che la sicurezza nazionale sia uno degli interessi alla base dell’iniziativa di Trump si ricava anche dalle analisi degli esperti: già a maggio, Luke Coffey, direttore del dipartimento di Politica estera della Heritage Foundation, scriveva che “la Groenlandia gioca un ruolo importante per la sicurezza dell’America del nord e merita maggiore attenzione da parte degli Stati Uniti”. Un’attenzione, però, che per Coffey si sarebbe dovuta tradurre in una presenza diplomatica, non in un maldestro tentativo d’annessione.

 

C’è poi la questione economica, che s’intreccia con quella del cambiamento climatico. Nel solo mese di luglio, i satelliti hanno registrato la liquefazione di circa 200 miliardi di tonnellate di ghiaccio: una minaccia per il resto del mondo – si calcola che, se l’intera calotta che ricopre oltre l’80 per cento dell’isola si sciogliesse, il livello medio globale degli oceani s’innalzerebbe di otto metri – ma una benedizione per la Groenlandia. E’ già pronto lo slogan Make Greenland green again, dove il verde non è solo quello dei prati decantati da Erik il Rosso, che così – per cronaca o per marketing? è un giallo – battezzò l’isola dopo esservi sbarcato nel 982, ma anche quello metonimico dei dollari. L’aumento delle temperature permetterebbe alla Groenlandia d’incrementare la produzione ittica, che oggi rappresenta il 90 per cento delle sue esportazioni, ma soprattutto di sfruttare finalmente a pieno regime il patrimonio che si cela nel suo sottosuolo: metalli rari e petrolio. Risorse su cui ha già messo gli occhi l’arcinemico cinese.

 

L’impressione è che Trump stia facendo i conti senza i groenlandesi. Dal punto di vista amministrativo, la Groenlandia – la più grande isola del mondo, ma anche la meno densamente popolata, con circa 60 mila abitanti – è parte, come detto, della Danimarca, da cui però si è progressivamente affrancata nel corso degli ultimi quarant’anni: nel 1979, il Parlamento di Copenaghen le concesse l’autogoverno; nel 1985, l’isola lasciò l’allora Comunità economica europea in seguito a un referendum popolare; nel 2009, infine, ottenne una sostanziale autonomia, con l’eccezione della Difesa, degli Esteri e della moneta. Il prossimo passo è l’indipendenza, esito caldeggiato da trenta dei trentuno parlamentari locali in carica. Difficile immaginare che questo anelito di libertà si spenga improvvisamente.

 

Per il momento, il governo groenlandese ha risposto all’avance con mirabile finezza: “La prendiamo come un’espressione dell’interesse a investire nel nostro paese; […] non siamo in vendita, ma siamo disponibili a fare affari”. Paradossalmente i più irritati sono i danesi, che hanno parlato di un pesce d’aprile fuori stagione. Dal canto suo, Trump ha confermato l’attenzione per la partita, facendo leva sui 700 milioni di dollari l’anno con cui Copenaghen sussidia l’isola. Il presidente americano sarà in città all’inizio di settembre per una visita ufficiale, ma scomodare il notaio sembra piuttosto prematuro.