Gli americani hanno troppo rispetto per l'antica Roma per voler fare la sua fine
Basta fare paragoni tra l'America di Trump e l'antica Roma. Il presidente degli Stati Uniti non è Cesare, e il periodo imperiale appartiene al passato
"Una repubblica, madame – se riesci a tenerla”. Questa è stata apparentemente la risposta di Benjamin Franklin a una donna che gli aveva chiesto l’esito della Convenzione di Filadelfia nel 1787”, scrive Niall Ferguson sul Sunday Times. “Ogni generazione in America teme di essere quella che vede svanire la repubblica. Almeno una volta ogni decennio, alcuni giornalisti tracciano un parallelo tra lo stato della nostra nazione e gli ultimi giorni della Repubblica romana. Dopo l’elezione di Donald Trump nel 2016 questo è diventato un rito annuale. Il mio vecchio amico Andrew Sullivan è l’ultimo studioso a sostenere che “siamo come Roma”. L’unica cosa che va detta a favore di questa analogia è che batte il parallelo con la Repubblica di Weimar. La scorsa settimana è stata, come al solito, una settimana turbolenta per l’Amministrazione Trump. In seguito a due sparatorie con una matrice politica – una eseguita da un suprematista bianco che ha proclamato l’uccisione degli ‘invasori’ ispanici, l’altra da un estremista di sinistra che nel 2017 aveva twittato di volere ‘uccidere ogni fascista’ – il presidente si è trovato sotto assedio da un’orda di commentatori che hanno dato la colpa per le stragi alla sua retorica polarizzante. Le sue visite sulle scene dei reati sono state segnate da alcuni tweet egocentrici e poco dignitosi. Nel frattempo, i contraccolpi finanziari della promessa di imporre dazi aggiuntivi sui prodotti cinesi si sono rivelati oltre le previsioni. Nessuno si aspetta seriamente che Pechino possa svalutare la propria moneta, annullando l’impatto dei dazi sui prodotti cinesi acquistati in America. C’è da aspettarsi maggiori pressioni della Casa Bianca sulla Federal Reserve, che però non si riunirà entro le prossime cinque settimane per decidere i tassi di interesse. Nel frattempo il caos finanziario sta facendo aumentare il prezzo del dollaro, l’opposto di ciò che vuole Trump. Ma questi problemi sono il sintomo di un’imminente restaurazione della monarchia, o addirittura di una deriva imperiale? Difficile che succeda. La scorsa settimana ho letto ‘Seven Days in May’, il romanzo bestseller di Charles W. Bailey e Fletcher Knebel, pubblicato per la prima volta nel 1962, quando John Kennedy era presidente. E’ un promemoria che la tesi del ‘siamo come Roma’ era molto più plausibile nei primi anni della Guerra fredda rispetto a oggi. Il romanzo, ispirato a eventi reali e ambientato nella primavera del 1974, racconta la storia di un tentato colpo di stato militare contro un presidente liberal. Vale sempre la pena leggere opere ambientate in un futuro che oggi appartiene al passato. Ti fa capire come la storia solitamente si evolve in modo diverso rispetto a ciò che si temeva. Jordan Lyman, il presidente nel romanzo, è un ex governatore che ha firmato un trattato per il disarmo con l’Unione sovietica. Il futuro imperatore, il generale James Scott (interpretato da Burt Lancaster nel film), considera Lyman un debole e un manipolatore. Questo è un futuro diverso rispetto a ciò che è successo realmente. Il presidente immaginario che scende a patti con Mosca è un liberal motivato da grandi ideali, mentre in realtà quella è stata la politica di un conservatore machiavellico come Richard Nixon. I generali nel libro sono reduci da una guerra in Iran, uno scenario molto distante dalla sconfitta militare che i veri generali avrebbero subìto in Vietnam. Per quanto riguarda il quarto potere, i cronisti sono seduti pigramente nella sala stampa, aspettando le dritte del portavoce del presidente, ignari dello scandalo sessuale che avrebbe travolto il futuro Cesare. Gli autori del romanzo hanno perso di vista le grandi trasformazioni sociali che hanno spazzato l’America, anche mentre scrivevano. I quattro personaggi femminili sono degli stereotipi degli anni Cinquanta: la casalinga devota, la segretaria ugualmente devota, e due vispe amanti di Manhattan. Sono tutti bianchi tranne due inservienti della Casa Bianca, che compaiono di rado e non dicono quasi nulla. Non c’è alcuna traccia della giovane generazione disaffezionata. Questo non è per dire che nel 1962 non esisteva un possibile ‘scenario romano’ di cui preoccuparsi.
Kennedy è stato avversato in tutti i modi dai servizi di intelligence e dai militari, entrambi i quali lo hanno deluso nel fiasco della Baia dei Porci. Gli Stati Uniti non hanno mai realizzato le ambizioni degli antirepubblicani proprio perché preoccupati da una riedizione della storia romana. E questo è l’errore di tutti i saggi che paragonano l’America a Roma. I padri fondatori erano tormentati dagli avvenimenti della storia romana, come sostiene Holland. Questo è il motivo per cui hanno creato una costituzione che era e resta profondamente diversa da quella della Repubblica romana, e che circoscrive il potere della presidenza. Tutti i presidenti si lamentano di questi vincoli, ma nessuno li vìola. Nemmeno Trump lo farà. La debolezza più evidente di questa tesi è che Trump non ha alcuna voglia di creare un impero. Non vede l’ora di ritirare le truppe americane dall’Afghanistan. Ha fatto marcia indietro sul cambio di regime in Venezuela. Il suo approccio alla politica estera americana è transazionale (‘Paga la tua protezione, oppure ci tiriamo fuori’). Ha iniziato una Guerra fredda con la Cina ma annullerà tutto se deciderà che i costi che derivano da essa complicheranno le sue speranze di rielezione. Gli americani hanno troppa riverenza verso l’antica Roma. La scorsa settimana ho visto alcuni estratti della commedia britannica ‘Up Pompei!’ ed è stata un’attività terapeutica. Lo schiavo Lurcio (Frankie Howerd) ha a che fare con il cartomante Senna, le cui previsioni sono sempre negative: “Miseria, miseria, tre miserie”. La prossima volta che leggete che l’America è come Roma vi consiglio di girare gli occhi come Howerd: “Una repubblica, madame, se riesci a tenerla. O un impero – se riesci a trattenerti dalle risate”. (Traduzione di Gregorio Sorgi)
*Questo articolo è stato pubblicato sul Times l'11 agosto 2019