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Perché le manifestazioni sono prova dell'eccezionalismo di Hong Kong

Francesco Palmieri

La guerriglia urbana, i valori dei giovani che non pensano solo ai soldi, Bruce Lee e la grande cinematografia

Chi può predire a questo punto l’esito della rivolta che da dodici settimane infiamma Hong Kong, come la “City on fire” dell’epico thriller di Ringo Lam ispiratore di Tarantino. Una svolta sembrava esserci stata negli ultimi giorni. La pacifica manifestazione che aveva portato un milione e settecentomila persone nelle strade domenica 18 agosto, poi la gigantesca catena umana che ha cinto venerdì 23 le stazioni della metropolitana testimoniavano un cambiamento tattico. Non più adunate flash mob per spiazzare la polizia né atti clamorosi come l’occupazione dell’aeroporto internazionale e gli assedi alle caserme. E invece. Ogni progresso è stato bruciato negli scontri di domenica scorsa a Tsuen Wan, caotico distretto dei cosiddetti Nuovi Territori, con un pericoloso salto di qualità nella guerriglia urbana. La polizia ha impiegato per la prima volta i cannoni ad acqua contro i blocchi stradali e per la prima volta gli agenti hanno estratto le calibro 38 dalle fondine, esplodendo un colpo in aria.

 

Prima ancora che finisca, la protesta hongkonghese è già oggetto di studio per le modalità: dall’integrazione delle app e della messaggistica negli scontri allo spregiudicato impiego delle piattaforme sociali operato dalla Repubblica popolare cinese, che ha determinato la sospensione di 210 canali su YouTube, di diverse pagine Facebook e quasi mille account Twitter manipolati a scopi controinformativi.

 


Le tattiche pacifiche delle ultime settimane sono state annullate dagli scontri violenti di questi giorni, dove i poliziotti hanno usato i cannoni ad acqua e per la prima volta hanno tirato fuori le calibro 38 dalle fondine, esplodendo un colpo in aria. Cosa aspettarsi nelle prossime settimane, e la reazione di Pechino


 

Le richieste più consistenti dei manifestanti restano la definitiva cancellazione del progetto di legge sull’estradizione, insidioso grimaldello offerto alla Repubblica popolare contro la libertà di espressione a Hong Kong; un’inchiesta esaustiva sulla condotta della polizia durante le proteste; il rilascio dei manifestanti arrestati; la concessione del suffragio universale improbabile ma realizzabile tenendo conto della Basic Law vigente fino al 2047 e delle caratteristiche di Hong Kong, parte integrante della Cina però con una storia peculiare. Purtroppo il governo locale guidato da Carrie Lam si è mosso tardi e male per l’apertura di un negoziato, anche se l’identificazione di una rappresentanza dei manifestanti che s’accomodi al tavolo non sembra semplicissima.

Chi può dire quando – e come – finirà. Eppure tante cose sono già cambiate nella “città che non dorme mai”. Molto più che con la Rivoluzione degli ombrelli nel 2014, Hong Kong sta ripetendo al mondo la sua unicità e gli avvenimenti di queste settimane formeranno una o più pagine di storia. La maggioranza dei partecipanti alle proteste non era nata nei giorni di Tian’anmen dell’89 né all’atto dell’handover del ’97, quando l’esiguo ma dissuasivo battaglione gurkha abbandonò per sempre il confine tra la Cina e la colonia britannica. Cresceva intanto a quaranta minuti di treno o di autobus la megalopoli di Shenzhen, su cui oggi Pechino minaccia di riversare ulteriori favori. Il mondo però preferirà sempre Hong Kong per la sua libertà – anche se assottigliata – a una città dove le delegazioni municipali, le sedi del Partito e i commissariati di polizia sono ospitati nei medesimi palazzi e in cui gli stadi servono anche per le esercitazioni militari.

 

I giovani di Hong Kong sono attraversati, come lo furono padri e nonni, da quel “constant nervous brio” che lo storico Jan Morris rilevava all’epoca dell’ultimo governatore Chris Patten. La sorpresa è che non sono solo i soldi l’aspirazione dei ragazzi né che sono astrusi nerd benché potessero sembrarlo, ma recepiscono certi valori più dei genitori: sono cresciuti studiando il cinese mandarino a scuola, maneggiano benissimo l’inglese però continuano a parlare cantonese; sono privilegiati detentori di due contemporanee prospettive, al centro dell’Asia ma affacciati sull’occidente; fanno proprio il motto taoista “Be water” di Bruce Lee, che resta un paradigma con la sua nascita e la vita fra l’America e l’oriente; infine hanno assorbito un cinema che ha raccontato come nessun altro l’epica del poliziotto, cioè l’antagonista di questi giorni. E’ una ferita che si rimarginerà difficilmente: le violenze con le forze dell’ordine hanno macchiato l’epos mélo dell’agente eroico e fragile cantato da John Woo in “A Better Tomorrow II”, da Wong Kar-wai in “Chungking Express” e da innumerevoli altri film. Le immagini dei poliziotti sotto copertura tra i manifestanti che ritornano in caserma, catturate dai tecnologici ragazzi hongkonghesi, hanno lacerato il drammatico romanticismo di “Infernal Affairs”, storia parallela di un infiltrato nelle triadi e di un gangster nascosto in polizia, capolavoro il cui saccheggio regalò a Scorsese quattro Oscar con “The Departed”. E’ questa Hong Kong: un locus che cede al mondo la sua inventiva talvolta senza firma e assorbe quella altrui, succhiando linfa all’occidente e alla stessa Cina. Fu la fuga dalla Repubblica popolare nel ’49 a trasferire da Shanghai nella colonia britannica il manifatturiero (ma anche il cinema, la musica e le bande criminali), con la successiva spinta dell’embargo decretato nella guerra di Corea al regime comunista. E’ stata e resta, Hong Kong, la mediatrice finanziaria, culturale, estetica tra due universi di cui deterrà l’accesso finché sarà di entrambi e non di uno soltanto.

 

“Per la catena umana di venerdì 23 ci siamo ispirati alla Catena Baltica di cui è ricorso il trentennale, un evento che coinvolse milioni di persone in tre paesi europei, Estonia, Lettonia e Lituania, per attirare l’attenzione del mondo sulle loro condizioni”, ci spiega Jason Y. Ng, già presidente del Pen Club di Hong Kong e coordinatore del Progressive Lawyers Group. “E’ esattamente il tipo di strategia a basso costo e ad alto impatto su cui dovremmo focalizzarci anche per impedire una escalation della violenza”. La scelta consentirebbe di prolungare le proteste scongiurando l’arrivo dei blindati: “L’intervento militare nell’imminenza del settantesimo anniversario della Repubblica popolare, mentre è in corso una guerra commerciale per giunta con un uomo imprevedibile alla Casa Bianca, costituirebbe un azzardo troppo grosso per il presidente Xi Jinping” dice Jason Y. Ng.

 

Tuttavia i fatti di domenica scorsa mettono in seria discussione il responso della sorte, che dipende dall’ambiguo articolo 14 della Basic Law. Recita che il mantenimento dell’ordine pubblico spetta al governo locale mentre la difesa del territorio compete alla guarnigione militare della Repubblica popolare, il cui intervento – “qualora necessario” – può essere invocato. E’ un inciso che potrebbe diventare ancora più elastico sabato prossimo, 31 agosto, quando è in programma un raduno sull’isola di Hong Kong davanti agli uffici della Repubblica popolare cinese. Sarà la replica di un’analoga dimostrazione avvenuta a luglio e non è stata autorizzata dalla polizia. Un possibile showdown cui seguirà, se gli eventi non prenderanno pieghe inattese, lo sciopero generale del 2 settembre.

Malgrado tutto è Gwong fuhk, alla lettera “tornare a brillare”, lo slogan della rivolta di Hong Kong. Metropoli pragmatica, tecnologica, veloce ma anche incline – non soltanto adesso – a un’indomabile poesia dai versi imprevedibilmente sciolti. Con l’alito della speranza o con il soffio della tragedia.

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