Quella strana alleanza tra liberal e dittatori per reprimere la libertà di espressione
I processi su Twitter, le campagne universitarie e le censure dei regimi del Terzo mondo sono motivate dallo stesso odio verso chi la pensa diversamente
"Lo scorso 22 giugno c’è stato un tentato colpo di stato in Etiopia. Il capo dell’esercito e il presidente dell’Amhara, una delle nove regioni, sono stati entrambi assassinati”, scrive l’Economist. “I cittadini volevano capire cosa stesse succedendo, ma il governo ha chiuso Internet. A mezzanotte il 98 per cento degli etiopi non avevano accesso alla rete.
‘I cittadini ricevevano delle notizie false ed erano confusi su ciò che stava accadendo… a un certo punto non era disponibile alcuna informazione’ spiega Gashaw Fentahun, un giornalista della Amhara Mass Media Agency. Lui e suoi colleghi stavano cercando di inviare una cronaca dei fatti. Ma anziché caricare gli audio e i video sul digitale, dovevano inviarli all’ufficio centrale con un aereo, causando enormi ritardi”. Lo scorso anno 25 paesi – tra cui l’India, il Ciad, il Sudan e il Congo – hanno bloccato internet per fermare il flusso di informazioni durante una crisi. Secondo l’associazione Freedom House la libertà di stampa è calata a livello globale negli ultimi dieci anni. I regimi repressivi lo sono diventati ancora di più, tanto che il 28 per cento dei paesi considerati “non liberi” lo sono diventati ancora meno e solo il 14 per cento ha invertito la tendenza. I paesi “parzialmente liberi” hanno riscontrato dei risultati ambivalenti mentre il 19 per cento dei “paesi liberi” hanno avuto una regressione (il 14 per cento è migliorato). Per l’Economist ci sono due spiegazioni per questo fenomeno. Primo, i partiti di governo hanno scoperto nuovi metodi per nascondere i fatti e le idee alle quali sono contrari. Secondo, sono incoraggiati a usare questi strumenti perché la fiducia globale nella libertà di stampa è calata, al punto che non esiste più una potenza internazionale – un tempo erano gli Stati Uniti – che si batte per questo principio. Il problema della libertà di stampa coinvolge sia la destra che la sinistra. “Il presidente Trump non può censurare la stampa in America ma le sue parole contribuiscono a un clima globale di disprezzo verso il giornalismo indipendente. I censori autoritari nel resto del mondo citano le frasi di Donald Trump, etichettando il giornalismo di opposizione come ‘fake news’ e i giornalisti ostili come ‘nemici del popolo’. La nozione secondo cui alcune idee andrebbero silenziate è diffusa anche a sinistra. In Gran Bretagna e in America gli studenti universitari tolgono la parola ai relatori che considerano razzisti e contro i trans, e le rappresaglie su Twitter chiedono il licenziamento di chiunque violi una lista di tabù sempre più ampia. Molti radicali occidentali sono convinti che nessuno abbia il diritto di dire ciò che loro ritengono sia offensivo. Gli autoritari sono d’accordo. Ognuno di noi ha un’idea diversa su ciò che è offensivo, quindi le leggi dell’hate speech sono uno strumento flessibile che può essere utilizzato per criminalizzare il dissenso. A marzo Serikzhan Bilash è stato arrestato in Kazakistan con l’accusa di avere ‘incitato l’odio etnico’, quando si era soltanto lamentato delle incarcerazioni di massa degli Uguri (una minoranza islamica) in Cina, uno dei maggiori partner commerciali del Kazakistan. Il governo in Ruanda interpreta quasi ogni critica nei suoi confronti come un sostegno implicito a un altro genocidio”.
Ci sono vari modi per reprimere la libertà di espressione: uccidere o incarcerare i giornalisti (58 sono stati assassinati nel 2018 e almeno 250 sono finiti in carcere), devolvere denaro pubblico esclusivamente ai giornali favorevoli al partito in carica, e coltivare uno scambio di favori tra i rappresentati del governo e gli editori più potenti. “Tuttavia, anche nelle democrazie più mature il sostegno alla libertà di espressione è in calo specialmente tra i giovani. Questo è evidente nelle università americane, dove il 61 per cento degli studenti ha detto in un sondaggio che il clima culturale nel proprio campus li ha spinti a omettere le proprie opinioni. Gli altri dati della ricerca aiutano a capire il perché. Il 37 per cento degli intervistati ha detto che è ‘accettabile’ togliere la parola ai relatori con i quali non si è d’accordo e incredibilmente il 10 per cento si è detto favorevole all’uso della violenza per non consentirgli di esprimersi. Molti studenti giustificano queste opinioni spiegando che alcuni relatori sono razzisti, omofobi oppure ostili verso altri gruppi svantaggiati. Questo a volte è vero. Ma gli studenti hanno frequentemente preso a bersaglio alcuni studiosi seri e autorevoli come l’opinionista Heather MacDonald, oggetto delle proteste degli attivisti di ‘Black Lives Matter’… Queste contorsioni verbali sono diventate diffuse a sinistra. Molti radicali sostengono che le parole che denigrano i gruppi svantaggiati sono una forma di violenza. Inoltre, dato che l’America si è polarizzata politicamente, molte persone hanno iniziato a dividere il mondo tra buoni e cattivi… Questa intolleranza si è diffusa in Europa, anche al di fuori dei campus universitari. I gilet gialli in Francia hanno ripetutamente picchiato le troupe televisive. In Gran Bretagna ogni discussione sui transgender è diventata esplosiva. Ad esempio, lo scorso settembre il consiglio comunale di Leeds non ha consentito al gruppo femminista Woman’s Place Uk di tenere un incontro perché era stato accusato di ‘transfobia’ da alcuni attivisti (le femministe non credono che ‘sentirsi una donna’ possa conferire agli uomini il diritto di entrare negli spazi a loro preclusi, come gli spogliatoi femminili). Le femministe che contestano questa teoria vengono sistematicamente minacciate di stupro o di morte. Lo scorso marzo Caroline Farrow, una giornalista cattolica, è stata interrogata dalla polizia dopo essere stata denunciata per avere usato il pronome sbagliato per descrivere una bambina trans. Un’altra femminista, la sessantenne Maria MacLachlan, è stata picchiata da un’attivista transgender allo Speakers’ Corner di Londra, un luogo in cui la libertà di stampa dovrebbe essere sacrosanta”. (Traduzione di Gregorio Sorgi)
*Quest'articolo è stato pubblicato sull'Economist il 17 agosto