Il primo degli europeisti
Con gli occhi puntati sui cantieri di Danzica, Lech Walesa ci porta in giro per la storia della Polonia a recuperare i fili persi dell’Europa, tra ricordi, un appello all’unità e un buffetto ai leader di oggi
Dalla nostra inviata a Danzica. “Qui inizia l’Europa” si legge sulla porta del Centro europeo di Solidarnosc. A pochi passi dai cantieri navali in cui tutto, la lotta per la libertà, la democrazia, la nuova storia della Polonia, è incominciato. Wolnosc (libertà) e Solidarnosc (solidarietà) sono due parole che si incontrano ovunque a Danzica, sui monumenti, nei manifesti, sulle magliette delle persone e sulle borse. Ricordati di ricordare, sembra dire Danzica ai suoi cittadini e ai turisti. Ricordati di ricordare, sembra dire il Centro europeo di Solidarnosc ai vicini cancelli dei cantieri di Danzica che al movimento hanno dato origine e che oggi sono in crisi.
Lech Walesa trascorre qui le sue giornate, la carica di “presidente” gli è rimasta addosso. “Presidente”, lo chiamano tutti. “Presidente”, lo chiamo anche io. “Prima domanda”, dice lui frettoloso. Della sua impazienza ero stata avvisata per tempo da assistenti e segretari, ma siccome Walesa ha addosso la maglietta con la scritta “Konstytucja”, parola diventata sacra in Polonia dopo le manifestazioni contro la riforma della Corte suprema proposta dal PiS, il partito che governa la nazione dal 2015, e siccome dalla sua finestra si vedono i cantieri e sembra di poter guardare dentro al cuore di Danzica e della Polonia, vado veloce anche io, vorrei sapere della città, del perché ogni cosa, la guerra, la democrazia, la barbarie e l’omicidio politico di un sindaco, accade sempre qui. “Bisognerebbe chiederlo al Padre eterno – dice Walesa – Danzica è una città di porto, tutti coloro che erano in cerca di un’occasione venivano qui e gli elementi più attivi della società si sono ritrovati in questa città. Danzica ha un po’ dentro tutta la Polonia, per questo ha più idee, più coraggio. E poi qui c’è il mare, ci sono le navi e anche questi elementi hanno contribuito affinché la città avesse una sua predisposizione a comportarsi sempre in modo diverso”. Nemmeno Lech Walesa è di Danzica. “Sono di Popowo, volevo cambiare aria e ho preso un treno”. A Danzica c’era già stato anni prima, non gli era piaciuta granché e, a dirla tutta, il biglietto che aveva in tasca quel giorno di giugno del 1967 era per Gdynia, un po’ più a nord, sempre affacciata sul mar Baltico. “Avevo sete, a un certo punto sento dall’altoparlante che eravamo a Danzica e che lì il treno si sarebbe fermato per una sosta di qualche minuto. Pensai di avere tempo, così scesi, volevo un tè. Appena iniziai a bere vidi il treno che partiva. Così sono rimasto a Danzica per cinquant’anni. Ancora mi ricordo il tè e anche la sigaretta che gettai sulle rotaie”.
Partì così una straordinaria serie di casualità. Walesa incontrò per strada un conoscente che gli consigliò di andare a cercare lavoro nei cantieri dove, tre anni dopo il suo arrivo, sarebbero iniziati i primi scioperi che portarono, nel 1980, al riconoscimento di Solidarnosc. “Abbiamo un sindacato indipendente e autonomo”, disse Lech Walesa nel settembre del 1980 quando, dopo aver trattato a lungo con il governo comunista, andò dagli altri operai che lo aspettavano davanti ai cancelli dei cantieri. “Quando decretammo la fine dello sciopero dissi agli altri: ‘Voi siete contenti e io invece sono molto preoccupato’. E aggiunsi: ‘Voi ora mi portate su un palmo di mano, ma verrà un giorno in cui vorrete tirarmi addosso delle pietre’. Sapevo che quel successo avrebbe portato ad altri successi, che dopo il riconoscimento di Solidarnosc saremmo potuti arrivare alla fine del comunismo e a quel punto avremmo dovuto ricostruire tutto daccapo. ‘Questo mio amato cantiere – dissi – non ha nessuna chance perché è legato al Partito, al sistema sovietico, perderemo questa fonte economica’. Ed è successo quello che avevo previsto. Come leader ero costretto a pensare ai passi successivi e a limitare i problemi che ne sarebbero venuti fuori”.
Fu questione di pazienza e di stabilità. Nel 1980 Solidarnosc viene accettato come sindacato, ma come movimento nasce con i primi scioperi nel 1970. “I polacchi – spiega Walesa con addosso gli occhiali gialli attraverso cui si vedono gli occhi rivolti alla finestra, ai cantieri – non hanno mai accettato il dominio dei sovietici, ma non avevamo la forza per difenderci e liberarci. Nonostante tutto non abbiamo mai smesso di provarci. Ci abbiamo provato negli anni Cinquanta e Sessanta, siamo scesi in piazza e siamo stati fermati. Poi ci abbiamo riprovato negli anni Settanta e, facendo tesoro degli errori e delle sconfitte, di nuovo abbiamo ricominciato a manifestare negli anni Ottanta. E quella volta ci siamo riusciti perché avevamo capito tutti gli errori che avevamo commesso in passato e che dovevamo combattere tutti insieme, uniti. Così è nato Solidarnosc”.
Solidarietà. “Alla base c’era una filosofia lineare: se non riesci a liberarti di un carico, di un peso, come per noi erano il comunismo e l’Unione sovietica, arriva qualcuno che può aiutarti”. In quei dieci anni che separano i primi scioperi dalla vittoria di Solidarnosc anche Walesa era cambiato: “Nel 1970 io ero tra i promotori della battaglia, quando allora finì lo sciopero e fallimmo chiesi a Dio di darmi una seconda possibilità, gli promisi che questa volta non l’avrei sprecata. Dio mi ha ascoltato e dieci anni dopo, nello stesso posto, ero sempre a capo delle manifestazioni ma lo feci in modo più saggio. Il partito stava già mostrando i primi segni di cedimento. E’ chiaro che i comunisti volevano essere al potere ma l’ideologia stava perdendo importanza”. Dio torna spesso nelle frasi di Lech Walesa che sulla maglietta, tra la “n” e la “y” della parola Konstytucja, ha una spilla con il volto della Madonna di Czestochowa e alle sue spalle c’è un ritratto di Papa Giovanni Paolo II. “Sia chiaro, non è stato il Papa a fare la rivoluzione, ma lui ci ha dato le parole e l’impulso. Quando Wojtyla arrivò in Polonia, il suo primo viaggio ufficiale da Pontefice, c’era fermento, tutti lo attendevano, le persone si interessavano. Noi così capimmo che eravamo moltissimi”. Le televisioni polacche in quell’occasione mandavano in onda immagini in cui non riprendevano la folla, non volevano far sapere che i cattolici in Polonia erano così tanti. “Il Papa ci disse che dovevamo cambiare la fede di questa terra, ma soprattutto ci aiutò a contarci. Ritrovai al mio fianco milioni di oppositori al comunismo, quando invece pensavamo di essere in pochi. Il Papa fece in modo che le persone si risvegliassero e si unissero all’opposizione”. A un anno dalla sua fondazione, Solidarnosc fu sospeso, nel 1981 il generale Jaruzelski impose la legge marziale e disse che era l’unico modo per tenere i sovietici lontani da Varsavia, Walesa fu arrestato. “Alle persone che erano venute a prendermi dissi: ‘Ormai avete perso miei cari, state dando l’ultimo colpo al comunismo’. Ed era così. Il sistema non era pronto alla rivoluzione di Solidarnosc, vedevano che stavano perdendo e tirarono fuori l’idea della legge marziale. Poi forse esagerai un po’, a chi era venuto ad arrestarmi, mentre mi portavano via, dissi in pubblico che se volevano che li aiutassi a tirarsi fuori da questa situazione, sarebbero dovuti venire da me in ginocchio. E’ stato un eccesso, ma succede, è l’emozione”.
Non andarono a cercarlo in ginocchio, ma aveva ragione: avevano perso. Presto arrivarono le prime elezioni libere, esattamente trent’anni fa. Solidarnosc le vinse e iniziò la transizione, il passaggio dal comunismo al capitalismo. La Polonia doveva trasformarsi e con lei, nel 1989, iniziava a convertirsi tutta l’Europa orientale, che già sognava l’occidente, lo sognava in segreto, e si ritrovò dopo la caduta del Muro a dover ricostruire le sue strutture. Si dovette reinventare. Il governo polacco di Tadeusz Mazowiecki avviò delle riforme economiche sostenute anche da Walesa, che l’anno dopo sarebbe diventato presidente. “Una terza via non c’era, dovevamo scegliere per forza il capitalismo anche se intuivamo sin dall’inizio che non sarebbe stato un buon sistema. Oggi sappiamo per certo che nel capitalismo qualcosa va cambiato”. Contro quelle riforme che aiutarono la Polonia a uscire dal comunismo, i nemici politici di Lech Walesa fanno ancora campagna elettorale, sono soprattutto esponenti del PiS. Prima di entrare nel suo ufficio, al secondo piano del Centro europeo di Solidarnosc, si passa per un corridoio pieno di foto e quadri. “Vede quel signore lì che sorregge il presidente in quella foto? – il suo assistente indica un’immagine con Walesa portato in trionfo da due uomini – Quello è oggi uno dei suoi massimi oppositori”.
Lo è anche Jaroslaw Kaczynski, leader del PiS, il partito nazionalista al governo e che i sondaggi danno ancora in testa per le elezioni che ci saranno il 13 ottobre. Il Solidarnosc non durò molto dopo la costituzione della Polonia democratica, ma molti dei politici che siedono dalle parti opposte del Parlamento polacco vengono da lì. Viene da lì Donald Tusk del Po (Piattaforma civica), presidente uscente del Consiglio europeo ed europeista, e viene da lì Kaczynski. “Quando c’era il comunismo, il Solidarnosc raggruppava varie persone con diverse idee. Ma tutti avevano un denominatore comune: il nemico. Quando il comunismo è stato sconfitto, hanno prevalso i numeratori”. Così Kaczynski oggi è il leader di un partito conservatore, euroscettico. Un partito che in più occasioni ha accusato Walesa di essere stato una spia o un collaboratore del regime. “Vogliono solo avere degli argomenti contro di me, ma se a loro quella lotta e le conquiste del Solidarnosc non piacciono, allora sono io a dare loro dei traditori. Dicono che avrebbero potuto fare di meglio, ma non lo hanno fatto, quindi sono loro i traditori, perché io invece ho dato tutto quello che potevo affinché vincessimo, e abbiamo vinto”. Dopo la sconfitta del comunismo sono emersi i personalismi. “Un po’ avrei potuto prevedere la svolta di Kaczynski, ma non fino a questo punto. Era un uomo preparato, un uomo sicuro ed è vero che la Polonia, come l’Europa, ha bisogno di cambiamenti. Ma per lui cambiare vuol dire eliminare, se qualcosa lo disturba, come la magistratura, la liquida ed è così che finisce la democrazia”. Walesa parla spesso di cambiamenti, di un mondo immobile da trent’anni. Di un’Europa che deve a ogni costo liberarsi di tutta questa immobilità. “Sia - mo riusciti a creare l’euro, abbiamo tolto le frontiere, abbiamo fatto in modo che fossimo liberi di muoverci, ma adesso siamo arrivati davanti a un muro. Abbiamo altre sfide fondamentali da portare a termine, perché finora non abbiamo realizzato un sistema di sviluppo concordato. E questo è un rischio”, avverte Walesa. “Per fare in modo che l’Europa sopravviva bisogna porsi delle domande. La prima: quali fondamenta vogliamo dare a questa nostra struttura? Alcuni credono che bisogna imporre delle leggi che ci rendano tutti uguali, altri, e a mio avviso questo approccio è più giusto, credono che bisogna partire dai valori: quali sono i nostri valori comuni? Una volta trovati i valori possiamo pensare al resto, all’economia, alle leggi. Trovare le fondamenta più adatte ci aiuta anche a proteggerci dal populismo e dalla demagogia”.
Dal Solidarnosc è iniziata l’Europa, il sindacato ebbe un effetto domino, fu una scintilla che ha portato alla costruzione dell’Ue come la conosciamo oggi, più o meno. “All’inizio eravamo tutti molto più uniti, perché anche in quel caso noi dell’Europa orientale e l’Euro - pa occidentale, e poi anche Stati Uniti e Canada, avevamo un denominatore comune che ora abbiamo perso, ma rimangono tante le sfide”. Ad esempio l’economia. Le riforme che Walesa sostenne nel 1989 e che costrinsero l’80 per cento dell’economia della Polonia a trasformarsi sono al centro degli attacchi del PiS, strumento da campagna elettorale contro l’Europa e contro il leader di Solidarnosc. “Come ho detto, non ho mai creduto che il capitalismo fosse il sistema migliore, era l’unico possibile in quel momento. Ora credo che vada cambiato. Preferirei chiamare il capitalismo economia di libero mercato, ma perché funzioni dobbiamo darci delle regole. Il mercato deve essere davvero libero per tutti e poi bisogna imparare a capire la globalizzazione. La globalizzazione non è un’ideolo - gia, è piuttosto adattamento. La globalizzazione – dice Walesa – è in ogni cosa e va interpretata come una necessità dello sviluppo umano e sociale”. In quest’Europa così ancorata al passato, incapace di vedere tutte le possibilità che ha davanti agli occhi, forse troppo impegnata a correre dietro ai populismi, manca anche la capacità di capire come migliorare il futuro, che pure è lì, dice Walesa, pronto a lasciarsi abbracciare. “Il modo di agire del passato ha causato delle asimmetrie nello sviluppo e ne paghiamo le conseguenze. Ripensare l’economia vuol dire fare in modo che spariscano le disuguaglianze e la globalizzazione serve anche a questo”.
Siamo fermi agli errori, ai dubbi, a quel che è stato fatto e l’Europa perde così il suo tempo a voltarsi indietro, senza capire che sta entrando impreparata in un’altra epoca: l’epoca dell’intelletto, la chiama Walesa. “Stiamo vivendo quella che io chiamo l’epoca della parola. Mi segua. Prima c’era l’epoca delle divisioni, ma ora è finita e all’orizzonte ci aspetta l’epoca dell’intelletto dominata dalle tecnologie. Noi siamo nel mezzo, in questo periodo di passaggio parliamo, discutiamo di come deve essere la Polonia, o l’Europa. Usiamo le parole per trovare soluzioni. Mentre discutiamo si formano anche i futuri leader, lei mi chiede se vedo dei leader, è questo il momento in cui dobbiamo sceglierli. Poi un leader deve avere il tempo di emergere. Non bisogna fare l’errore di scegliere qualcuno soltanto perché è bravo a parlare. Per fare il leader ci vuole preparazione”. Eppure l’Europa sembra averlo trovato un leader o qualcuno che è pronto ad assumersi il carico di questa funzione di guida: Emmanuel Macron. “Non dico che Macron non mi piaccia, ma per guidare gli altri non basta essere travolgente, usare bene le parole e ritengo che Macron abbia sottovalutato molte cose come l’organizza - zione o l’importanza di avere un sistema politico che ti sostenga. E’ un uomo molto intelligente, ma non è pronto. La prova di questo è il tentativo di riavvicinarsi alla Russia. Non si possono saltare i passi quando si vuole governare, saltare passi porta ad avere pensieri sbagliati e spesso hai pensieri sbagliati se non sei preparato. Anche io sono diventato leader perché ero bravo a parlare e senza nessuna preparazione, ma quella era un’epoca diversa, in cui potevi diventare presidente così, saltando i passi”.
L’Europa ricomincia da qui, dalla parola e dalle discussioni, dai nuovi leader e dalla globalizzazione che non va respinta, ma accettata come evoluzione della civiltà. A ottobre ci saranno le elezioni in Polonia e secondo i sondaggi vincerà di nuovo il PiS, un partito euroscettico, votato da una nazione molto europeista. E’ un paradosso? “Nie, nie, nie. Vede, quando si parla della Polonia bisogna ragionare in modo un po’diverso. La Polonia sta ancora pagando per la distruzione durante la guerra, i polacchi hanno bisogno di punti di riferimento e non sanno di chi fidarsi, sono venuti fuori scandali finanziari in politica e sessuali nella chiesa. Anche dall’Ue cerchiamo altre soluzioni. Il PiS dice di averle queste soluzioni per il futuro, ma ragiona con gli schemi del passato e non possono essere giuste”, dice Walesa mentre posa di nuovo lo sguardo sui cantieri, su Danzica, sulla Polonia, sull’Europa immobile davanti a un muro. Trent’anni fa la caduta del Muro, un altro, ben più forte di questo di oggi, è partita da questa città, audacemente affacciata sul mare. Non aveva intenzione di tornare in politica Lech Walesa, dice di averlo fatto perché c’era bisogno di idee, di parole, di futuro. C’era bisogno di abbattere un nuovo muro e lui vuole farlo di nuovo da Danzica, la città coraggiosa e ingegnosa. La città che ha visto tutto, la guerra, la lotta per la democrazia, la barbarie, l’omicidio politico di un sindaco e che oggi ha dichiarato guerra all’odio. Ora il cartello all’ingresso sembra quasi una promessa: qui inizia l’Europa.
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