Nelle urne d'Israele
Quanti referendum su se stesso può reggere un leader? Il biografo di Netanyahu ci dà la risposta
Quanti referendum su se stesso può reggere un leader? Molti, se si tratta di Benjamin Netanyahu. Israele vota oggi per la seconda volta in poco più di cinque mesi. Dopo il “tradimento” del suo alleato ed ex ministro della Difesa Avigdor Lieberman, leader del partito di ultradestra Israel Beitenu, il premier israeliano ha fallito ad aprile nel costruire una coalizione. E ha preferito sciogliere il Parlamento e indire nuove elezioni piuttosto che lasciare al presidente Reuven Rivlin la possibilità di dare l’incarico a un politico rivale. Non è stata incoscienza politica, la sua, semmai un rischio calcolato. “E’ lui stesso a trasformare ogni appuntamento elettorale in un referendum sul suo potere. L’unico modo che conosce per correre in un’elezione è renderla un voto su se stesso”, dice al Foglio Anshel Pfeffer, che sul premier israeliano ha scritto un libro, “Bibi: The Turbulent Life and Times of Benjamin Netanyahu”.
Per il primo ministro più longevo della storia di Israele in gioco c’è la sopravvivenza politica: il voto potrebbe consegnargli un record, il quinto mandato, o decretare la fine di dieci anni di regno. La minaccia è arrivata inattesa dal suo stesso campo. Senza il sostegno di Lieberman, Netanyahu, che dell’abilità di creare coalizioni di governo ha fatto un’arte, in caso di successo e di incarico da parte del presidente dovrebbe riuscire, senza un alleato storico al suo fianco, a mettere assieme 61 su 120 seggi alla Knesset, il Parlamento israeliano. Si tratta di un processo che potrebbe durare diverse settimane. I numeri dei sondaggi raccontano un buon risultato per i movimenti del blocco pro Netanyahu. Il premier, che rischia entro l’anno di essere incriminato in tre casi di corruzione, potrebbe quindi contare su una serie di partiti di destra più o meno radicale che lo appoggiano. E sui movimenti religiosi. Per Pfeffer, però, la domanda è se questo tipo di coalizione sia oggi popolare: “Molti israeliani sostengono la destra, molti sono religiosi, ma molti non sono le due cose messe assieme”. E sono stati in parte i disaccordi tra il partito laico Israel Beitenu e i leader politici ultraortodossi ad accendere la crisi e provocare la defezione di Lieberman. L’ex ministro della Difesa è intenzionato oggi a sostenere soltanto un governo di unità nazionale, che includa il Likud di Netanyahu e il suo più minaccioso sfidante. Gli ultimi sondaggi condotti raccontano un voto “too close to call”. In un’elezione fotocopia dell’appuntamento della primavera, il maggior rivale di Netanyahu resta il generale ed ex capo di stato maggiore Benny Gantz. Il suo partito, Blu e bianco – dai colori della bandiera israeliana – e il Likud di Bibi hanno numeri molto simili. Se per riscaldare il proprio elettorato Netanyahu accusa Gantz di “essere di sinistra”, Blu e bianco ha posizioni centriste che possono erodere il consenso del premier a destra. Poche invece le novità sulla sinistra, racconta Anshel Pfeffer: “Non c’è una sinistra”, e il ritorno sulla scena politica qualche mese fa dell’ex premier laburista Ehud Barak non ha ravvivato la debole opposizione in un momento in cui i suoi temi elettorali “non dominano la scena: il conflitto con i palestinesi non è una grande questione elettorale, i palestinesi sono divisi in fazioni, il mondo arabo è focalizzato sull’opposizione all’Iran”.