Il premier britannico, Boris Johnson, con l'ex presidente della Commissione europea, Jean-Claude Juncker, al loro ultimo incontro in Lussemburgo (foto LaPresse)

Il passo di Boris fuori dall'Europa

David Carretta

Accordo o non accordo, l’Ue ha un altro grande problema con Londra: l’ambizione del premier inglese di trasformare il Regno in una Singapore sul Tamigi. Così la competizione con l’Ue sarebbe brutale

Deal o no deal entro il 31 ottobre, l’Unione europea ha un altro grosso problema da quando la Brexit è nelle mani di Boris Johnson. Aldilà del dilettantismo con cui il premier britannico conduce i negoziati con Bruxelles e dei colpi di mano che amplificano il caos politico a Londra, Johnson sta uscendo non soltanto dall’Ue, dal mercato interno e dall’unione doganale. Boris sembra “voler uscire anche dall’Europa” intesa come entità geografica, economica e di sicurezza, spiega al Foglio un diplomatico europeo. “Usciremo dall’Ue, non dall’Europa”, era uno dei ritornelli di Theresa May: una relazione stretta con l’altra sponda della Manica era considerata indispensabile per gli interessi economici e di sicurezza. La formula era stata ripresa dallo stesso Johnson nell’ottobre del 2016, quando era il ministro degli Esteri del governo May. Ma da quando è diventato primo ministro, e in particolare dal momento in cui ha rilanciato i negoziati Brexit inviando a Bruxelles il suo sherpa David Frost con una serie di richieste per modificare l’accordo di recesso e la dichiarazione politica sulle relazioni future, l’obiettivo di Johnson sembra essere diventato una rottura netta, non soltanto con il presente (l’appartenenza all’Ue), ma anche per il futuro (la partnership del dopo-Brexit). Le conseguenze rischiano di essere pesanti. L’Ue e Theresa May avevano concordato l’obiettivo di un ambizioso patto di libero scambio senza tariffe e senza quote, che era stato ribattezzato “Canada plus, plus, plus”. Grazie a Johnson i britannici rischiano di trovarsi con un accordo “Canada minus, minus, minus”: dazi, quote e controlli intrusivi sulle merci, come se il Regno Unito fosse un qualsiasi membro del Wto e non una realtà economica profondamente integrata con i 27.

 

L’obiettivo di Johnson sembra non soltanto quello di rompere con il presente ma di organizzare una rottura definitiva anche per il futuro

Il timore di una deriva di Johnson lontano dalle coste dell’Ue e la minaccia di ripercussioni sui rapporti commerciali nel dopo Brexit sono stati esplicitati ieri dall’eurodeputato liberale Guy Verhofstadt: “Non accetteremo mai una Singapore del Mare del nord”. Il fatto è che il premier britannico non si è limitato a chiedere di cancellare il backstop per evitare il ritorno della frontiera fisica tra Irlanda e Irlanda del nord. Il suo sherpa, David Frost, ha anche avanzato la pretesa di modificare la dichiarazione politica sulle relazioni future per permettere al Regno Unito di divergere (al ribasso) dagli standard europei sulla legislazione sociale, ambientale, degli aiuti di stato e della concorrenza. La richiesta ha sollevato allarme in diverse capitali dei 27 perché, in caso di accordo di libero scambio stile Ceta con il Canada, consentirebbe all’economia britannica di competere con quelle continentali attraverso dumping e sovvenzioni. “Il Parlamento europeo non accetterà mai che il Regno Unito possa avere tutti i vantaggi del libero scambio senza allinearsi ai nostri standard ambientali, sanitari e sociali”, ha avvertito Verhofstadt: “Non siamo stupidi! Non uccideremo le nostre imprese, la nostra economia e il mercato unico”. In modo più diplomatico, il caponegoziatore dell’Ue per la Brexit, Michel Barnier, ha ricordato quali sono i paletti. “Il governo britannico vuole fare marcia indietro rispetto agli impegni presi da Theresa May sulla questione della parità di condizioni (level playing field). Con un grande paese così vicino e importante come il Regno Unito, che realizza la metà del suo commercio con noi, un partenariato economico ambizioso esige uno zoccolo di regole del gioco comuni”, ha detto Barnier: “Il livello di ambizione di un futuro accordo di libero scambio (...) dipenderà chiaramente dalle garanzie che metteremo nero su bianco nei settori sociale, ambientale, della concorrenza o degli aiuti di Stato”.

 

Per un partenariato commerciale integrato servono delle regole comuni di base. Se saltano quelle, i rischi sono alti

Un altro diplomatico europeo ha tradotto per il Foglio le parole di Barnier, spiegando cosa significano in concreto. “Alcuni stati membri sono preoccupatissimi che il Regno Unito voglia diventare la Singapore sul Tamigi”: con la richiesta di divergere dagli standard dell’Ue, i britannici “vogliono guadagnare competitività a scapito nostro” e “in alcuni settori ci possono fare molto male”. Se il Regno Unito “vuole un accordo di libero scambio è indispensabile il level playing field. Se non vogliono il level playing field, non ci sarà una relazione commerciale così integrata”. E nel futuro accordo commerciale “ci saranno tariffe e quote nei settori dove pensiamo di far male ai britannici”, spiega il diplomatico europeo. Ma quel che vale per l’economia, vale anche per altri campi delle relazioni future. Sulla cooperazione giudiziaria e di polizia – per esempio – una delle precondizioni per continuare a collaborare strettamente è la giurisdizione della Corte di Giustizia dell’Ue. “Se vogliono qualcosa di simile a un mandato d’arresto europeo, serve la Corte europea”, prosegue il diplomatico. Altrimenti il regno Unito avrà “accordi meno operativi e efficaci”.

 

In fondo, anche dietro alla controversia sul backstop irlandese, c’è la protezione degli interessi economici dell’Ue. Johnson ha evocato l’idea di un mini-backstop sui controlli sanitari e fitosanitari e di spostare le formalità doganali lontano dal confine tra Irlanda e Irlanda del nord. Per l’Ue preservare gli accordi del Venerdì Santo tenendo aperta la frontiera è importante. Ma c’è di più: “Il backstop per l’Ue è fare in modo che Belfast non diventi il porto di ingresso di merci non controllate dalla Cina e altrove”, dice il diplomatico. Inoltre, se ci fossero falle nei controlli sanitari, potrebbero essere usate da paesi terzi (la Russia lo ha già fatto più volte) come strumento protezionista per bloccare le importazioni di tutti i prodotti agroalimentari dall’Ue. “Dietro alla parola backstop, ci sono garanzie molto concrete di cui abbiamo bisogno” per “la salute dei consumatori, la sicurezza dei prodotti, la protezione dei bilanci nazionali”, ha ricordato ieri Barnier. Tutto questo è stato spiegato a Johnson nel pranzo di lunedì in Lussemburgo con il presidente della Commissione, Jean-Claude Juncker. Le sue proposte per sostituire il backstop non sono sufficienti. Se vuole davvero un deal dovrà fare come May e scontentare i suoi brexiter. A meno che – come molti iniziano a sospettare a Bruxelles – quello di Johnson non sia solo “uno show da istrione” a fini di politica interna.