Dimmelo tu cos'è la way of life europea
Un piccolo viaggio (accompagnato) nel nostro inafferrabile stile di vita. Tre sguardi diversi e una storia che spiega ogni cosa
Milano. La “European way of life” si è ficcata come una spina nella gola di molti analisti e commentatori europei che alla domanda: dimmi, ma cos’è lo stile di vita europeo?, si sentono soffocare. Finirà che Ursula von der Leyen, presidente della Commissione europea che ha introdotto un commissario dedicato alla “protezione dello stile di vita europeo” (è il greco Margaritis Schinas, che tra le altre cose si occuperà di immigrazione, che era l’unico portafoglio che la Grecia aveva richiesto, visto che sta lì, al confine sud, ad accogliere migranti) dovrà rimangiarselo, questo azzardo, e tutto sommato potrebbe pure non offendersi: tenetevi lo stile di vita europeo, non ne parlerò mai più giuro, ma lasciatemi e confermatemi tutti i commissari che ho scelto.
Che lo stile di vita europeo scompaia dal dibattito se lo augurano in molti, a partire da Steven Erlanger, storico corrispondente del New York Times che ha girato e raccontato tutta l’Europa: “Vorrei farla io una domanda – dice al Foglio – Chi sono questi europei? La donna di Clichy-sous-Bois, una delle banlieue di Parigi? I maschi arrabbiati dell’ex Germania dell’est? Gli italiani che pensano che Salvini sia the cat’s meow (magnifico)? I rom, che sembrano l’ultima razza che gli europei hanno il permesso di odiare?”. Erlanger pensa, come tanti altri, che la von der Leyen giochi “con gli argomenti della destra sull’identità: è un gioco orrendo”. Secondo Erlanger, il gioco si basa sull’incapacità dell’Unione europea, e non dell’Europa, di gestire gli Orbán, i Kaczynski, i Salvini, l’Afd. L’insistenza della von der Leyen non è un buon segno”.
Katy Lee e Dominic Kraemer, ideatori e presentatori di The European Podcast, imprescindibile podcast sull’Europa che ha la fortuna di potersi definire “Brexit-free zone”, dicono che “è un anno e mezzo che facciamo questo podcast, ma ancora non siamo sicuri di che cosa significhi essere europei. E quando si tratta di stile di vita europeo, be’ la giuria è ancora riunita”. L’ultima puntata è dedicata proprio a questo tema, “che cavolo è questa european way of life?”, e anche se una risposta non c’è i due presentatori dicono di aver molto amato una definizione emersa durante la discussione, “questo stile di vita ha a che fare con il diritto di essere trattato come un cittadino francese se sei un italiano che vive in Francia o come un cittadino tedesco se sei un francese che vive in Germania”. Proprio per questo, dicono Lee e Kraemer, proprio per questa accoglienza che diventa appartenenza, la von der Leyen dovrebbe eliminare la definizione dell’incarico del commissario: “Abbiamo fatto un salto quando l’abbiamo sentita, non ci potevamo credere. Ricorda il modo con cui Orbán parla degli immigrati, soprattutto degli immigrati non bianchi, come se fossero una minaccia alla cultura europea. E’ un uso orribile della lingua”.
In molti poi sono convinti che la scelta non sia stata casuale, che anzi la von der Leyen, che è stata confermata per pochissimi voti dal Parlamento europeo e che è stata nominata grazie all’accordo dei paesi dell’est europeo, voglia saldare in fretta e bene questo suo debito politico. Quel che non sai gestire provi a compiacerlo, e in questo approccio opportunistico alla politica europea Erlanger vede (e denuncia) un’enorme forse irrimediabile mediocrità: “C’è poca comprensione del mondo là fuori, permane il desiderio infantile di far come se non esistesse, e permane anche la riluttanza ad accettare la necessità di sicurezza di fronte alle sfide nuove che lanciano per esempio i russi e i cinesi”. Ad ascoltare Erlanger vien voglia di nascondersi, altro che orgoglio europeo – per fortuna ogni tanto fa la distinzione tra Unione europea ed Europa concedendo trascurabili momenti di sollievo.
Il dibattito sullo stile di vita europeo è diventato presto deprimente, lotta ideologica, equilibrismo, compensazione politica. Come spesso accade con le questioni europee, le faide ideologiche e l’opportunismo hanno il sopravvento e finiscono per deturpare anche le cose talmente belle da essere inafferrabili, pure se rimangono presentissime. In “Il mondo di ieri. Ricordi di un europeo”, Stefan Zweig scriveva: “Era dolce vivere in quell’atmosfera di tolleranza, dove ogni cittadino senza averne coscienza veniva educato a essere supernazionale e cosmopolita”. E’ questo il significato più profondo dello stile di vita europeo: la naturalezza di vivere in un luogo che ha conquistato pace, libertà, diritti e benessere, “senza coscienza” appunto.
Simon Kuper, editorialista del Financial Times, fa riferimento a un articolo che aveva scritto parecchi anni fa, nel 2013, e che oggi rispolvera quando deve spiegare che cosa significa essere europei. Si intitolava “Se sei europeo sorridi” e con la precisione ironica tipica di Kuper raccontava perché vivere in Europa, vivere da europeo, non fosse affatto brutto, anzi. La capacità di resistenza delle democrazie europee si è dimostrata invincibile, e se oggi Kuper tira fuori uno scritto di tanto tempo fa è perché, nonostante gli stravolgimenti, ancora oggi l’essenza europea resta intatta.
Inafferrabile – cosa diavolo è lo stile di vita europeo? – ma profonda, e quando la von der Leyen è stata costretta a scavare dentro la sua definizione, a giustificarla, è arrivata dritta anche lei allo stessa essenza, che è fatta dei valori occidentali e liberali che respiriamo da settant’anni e che migliorano ogni giorno la qualità dello stile di vita europeo. Semmai il problema di tutto questo dibattito – che è risultato, come spesso accade con le questioni europee, in un’occasione mancata per inorgoglirsi di un progetto che, come dice Kuper, “non è affatto male” – è l’aver legato il concetto di protezione a quello di immigrazione, come se davvero il continente europeo dovesse proteggersi dall’immigrazione e non piuttosto dotarsi di strumenti validi e permanenti per gestirla.
Ma poiché l’essenza europea, inafferrabile e presentissima, è più forte dell’assenza di solidarietà o della riduzione di un fenomeno epocale a un processo binario tutti fuori-prenditeli a casa tua, ieri il New York Times ha raccontato la storia di Golzow, un piccolo paese tedesco di 820 abitanti al confine con la Polonia che ha accolto 16 siriani che in proporzione rappresentano il milione e mezzo di rifugiati che l’intera Germania ha accolto dal 2015. Il sindaco dice che all’inizio tutti erano scettici e ostili, un siriano dice che era riuscito a chiamare un amico appena gli avevano comunicato la sua destinazione che gli aveva detto: “La Germania dell’est? Ma sei matto?”, lì non amano gli stranieri. Oggi Golzow ha scoperto l’integrazione, ha riaperto la scuola che non aveva più bambini, soprattutto ha condiviso la propria storia: gli abitanti più anziani di Golzow sono arrivati qui alla fine della Seconda guerra mondiale abbandonando i territori tedeschi in Polonia, come i bambini siriani sanno che rumore fa una granata quando esplode e insieme sobbalzano quando alla fiera del paese ci sono i fuochi d’artificio. “I bambini di Golzow allora sfatarono i miti occidentali sull’ovest – scrive il New York Times – e oggi i nuovi bambini di Golzow hanno sfatato i miti sugli immigrati”. Sarà anche indefinibile e bistrattato, lo stile di vita europeo, ma se ti capita di vederlo, lo riconosci.