Fora Bolsonaro!
Il presidente è diventato un modello per i populisti di mezzo mondo, ma ha portato il Brasile fuori dai Brics e ha isolato il paese. La cura? Più fabbriche e più lavoro
Il presidente brasiliano Jair Bolsonaro è esattamente ciò che aveva annunciato di essere e verrebbe da dire a chi lo ha votato: siete voi i responsabili delle vostre scelte. Ma i costi rischiano di essere molto alti. Ancora sorge il dubbio se sia stato eletto, scelto o “nominato”. Il precedente Golpe di Michel Temer, ha agevolato un sistema poco chiaro di revisione della legge elettorale. In tutto il mondo, di fatto, la democrazia è in crisi, ancora lontana dal creare antidoti ai suoi mali. I sovranisti italiani sul Sudamerica si sono divisi, Salvini ha scelto Bolsonaro, Di Maio e Di Battista, Maduro.
Bolsonaro è un soggetto da analizzare attentamente e il risultato dello studio potrebbe aiutare molto a salvare la democrazia. L’ex capitano della milizia è in realtà in politica da sempre. Dopo essere stato eletto nel gennaio 2019, la sua popolarità è in caduta anche perché ha cercato di applicare nella maniera più dura possibile le ricette sovraniste. Il mix di statalismo applicato e liberismo promesso (simile a quello dei gialloverdi in Italia) non sta funzionando. Con l’ascesa del Partido dos Trabalhadores (Pt) dal 2004, il pil era cresciuto del 3 e poi oltre il 6 per cento, portando il Brasile tra i Brics emergenti (insieme a India, Cina e Sudafrica). Nel primo trimestre, Bolsonaro parte in recessione con meno 0,2 per cento.
Al netto di seri problemi di censimento, la maggior parte della popolazione brasiliana si considera di pelle bianca (47,33 per cento). Il 43,13 per cento si considera pardo (di pelle scura) e il 7,61 per cento di pelle nera. L’1,09 per cento della popolazione è di origine asiatica, lo 0,3 per cento sono indios: la carta xenofoba è giocata in misura diversa.
Bolsonaro è un soggetto da analizzare attentamente e il risultato dello studio potrebbe aiutare molto a salvare la democrazia
Altro fattore determinante, il forte sostegno delle imprese e della chiesa cattolica ultraconservatrice. In particolare quella “evangelica pentecostale”, cresciuta negli ultimi 30 anni dal 6 al 22 per cento, a scapito della chiesa cattolica. L’atteggiamento di Papa Francesco nei confronti di Bolsonaro sta contrastando questo fenomeno e ha innescato un atteggiamento nuovo. Non a caso il Papa riunirà in ottobre il sinodo sull’Amazzonia a cui il presidente non è stato invitato a partecipare, e con lui né politici né militari in carica.
Bolsonaro, prima delle elezioni, veniva dato intorno al 15 per cento. Ma una situazione economica instabile in un Brasile martoriato dalla criminalità e dalla corruzione ha fatto oscillare gli umori facilmente. Bolsonaro ha sconfitto al ballottaggio lo sfidante Haddad con oltre dieci punti di vantaggio e ha segnato l’inizio di una nuova era politica, rappresentando un forte distacco da quella tradizione petista (Pt è il partito nato con Lula) che aveva caratterizzato il Brasile per quasi quindici anni, prima con Lula, poi con Dilma Rousseff.
Non vi è dubbio che la fase precedente al golpe del 2016 sia stata segnata anche da una degenerazione, specie in alcune regioni del Pt. Ma associare le politiche di Lula a quelle dei venezuelani, soprattutto in riferimento al mercato e al rispetto della separazione dei poteri, non è una banalizzazione della realtà, bensì un’enorme falsità. Il nazionalpopulismo è una miscela di statalismo, liberismo e peronismo. Cercare una categoria politica oppositiva a esso è fuorviante. Per i sovranisti a chi appartenga il merito è irrilevante.
Bolsonaro ha raccolto qualche simpatia occidentale perché, nonostante un passato maggiormente statalista, possiede “teoricamente” una visione economica molto orientata al libero mercato e la scelta di affidare a Paulo Guedes (Chicago Boy, allievo di Milton Friedman) il superministero dell’Economia lo dimostra. Il programma di privatizzazioni (il Banco do Brasil e il gigante del petrolio Petrobras) è stato annunciato allo scopo di smontare l’impianto centralistico e troppo burocratico del paese, riducendo al contempo il debito pubblico. Sarà poi probabilmente proposta l’indipendenza della Banca centrale. Riguardo al welfare, l’impronta è simile. Lo scopo è tagliare una consistente parte della spesa pubblica per ridurre il deficit (attualmente vicino al 9 per cento del pil) e rendere il Brasile più competitivo. Ma il crollo dell’economia brasiliana è avvenuto dopo Lula, non con lui.
Tuttavia i pericoli sono enormi e se il giudice che ha condannato e incarcerato Lula è oggi il ministro della Giustizia il segnale è chiaro. Quando, ovunque, il consenso vale più di ogni cosa e supera le regole, si esce da un ordinamento democratico.
L’attacco al lavoro e al sindacato
Come i regimi dittatoriali, i governi sovranisti attaccano il sindacato libero ancor più delle opposizioni politiche. I colloqui della delegazione Fim-Cisl con Paulo Cayres della Cnm/Cut (Confederação Nacional dos Metalúrgico) sono stati illuminanti. La Cut, con cui la Fim e la Cisl hanno avviato una cooperazione molto forte, nel 2015 era il quinto sindacato più forte al mondo con 25 milioni di iscritti.
Bolsonaro, come Putin, Orbán e Trump, attua la medesima strategia in due punti: il primo è attaccare il sindacato finanziariamente, rendendone sempre più difficile l’iscrizione (azione che nei settori con debole organizzazione dei lavoratori – privati o pubblici – sta avendo già un grande effetto). Poi tagliando le risorse disponibili per organizzare i lavoratori e infine polverizzando il sindacato e consentendo ogni 20 lavoratori la costituzione di una nuova organizzazione sindacale. Il secondo attacco è politico: il cuore vero è la riforma previdenziale, che comprende la riforma del sistema pensionistico per renderlo a capitalizzazione individuale (e quindi più privatistico) a scopo elettorale (come in “quota 100”, Bolsonaro in campagna elettorale si era detto disponibile a un abbassamento dell’età pensionabile graduale). In realtà, l’età pensionabile a 65 anni in Brasile non tiene conto che nelle zone più povere del Brasile (vedi il nord-est) l’età media non supera i 62 anni e nel resto supera di poco i 65.
Non solo, sono previsti l’abolizione del lavoro straordinario – nel senso che è pagato come l’orario normale –, i limiti legali di orario e la soglia del salario minimo, oltre a ricorso smisurato al “lavoro intermittente” (in Brasile è ancora frequente il pagamento di una giornata di lavoro con un pasto).
Per quanto riguarda il sistema di assistenza, Bolsonaro intende mantenere la Bolsa Familia (una sorta di aiuto economico per le persone in difficoltà) e aumentarne massicciamente l’importo. Sempre all’interno della riforma previdenziale è stato introdotto un nuovo tipo di libretto del lavoro (documento obbligatorio per tracciare la vita lavorativa delle persone), per garantire ai giovani la scelta di essere inquadrati come in passato, oppure senza una serie di diritti e garanzie, ma con una maggiore possibilità di essere assunti. Vi saranno due libretti di lavoro, uno verde e giallo (a ricordare i colori nazionali), con cui è più facile lavorare ma senza le tutele contrattuali e di legge, e uno azzurro (azul), che rispetta le vecchie normative contrattuali e di legge ma con cui è impossibile trovare lavoro. Anche i lavoratori già assunti con il documento azzurro vengono spesso licenziati e riassunti con quello verde amarillo.
In contrapposizione rispetto a quanto Lula aveva fatto per integrare il Sudamerica, è fortissima la campagna contro il multilateralismo, in stile trumpiano, anche a causa della critica al sistema restrittivo del Mercosur, messo spesso in discussione già in campagna elettorale.
Come i regimi dittatoriali, i governi sovranisti attaccano il sindacato libero ancor più delle opposizioni politiche
Ma accanto ai proclami, Bolsonaro sta scontentando sinistra, sindacati e l’ala più liberista del suo governo rappresentata dal ministro Guedes. Riformare il sistema pensionistico, cosa che non è riuscita all’ex presidente Temer per mancanza di appoggio politico, si sta rivelando una bomba in termini di consensi. Sulle privatizzazioni si sono affacciate come acquirenti le multinazionali cinesi e ora viene considerato rischioso vendere il cuore di Eletrobras, azienda pubblica produttrice e fornitrice di energia elettrica in tutto il paese. Ed ecco che il protezionismo sovranista richiama subito una vocazione più statalista.
Intanto le imprese, i mercati e gli investitori, dei quali Bolsonaro ha guadagnato l’appoggio negli ultimi mesi di campagna elettorale, si stanno allontanando. E così, senza delle vere riforme strutturali come quelle promesse (difficili), i tassi d’interesse potrebbero tornare a rialzarsi, mentre gli investimenti potrebbero ritirarsi, specialmente con una condizione relativa alle finanze pubbliche così disastrata. Ci ricorda qualcosa? Soprattutto su come il lato industriale italiano del partito del pil si è fatto ancora più facilmente ingannare?
Lula in carcere: un golpe giudiziario
Bolsonaro non nasconde di considerare auspicabili i sistemi dittatoriali e sovente giustifica il comportamento di chi, durante la dittatura militare, ha rapito, imprigionato e torturato i dissidenti politici. Nel suo ufficio alla Camera ha appeso i ritratti di tutti i capi di stato militari dell’ultima dittatura.
Sotto la sua gestione i reati per femminicidio sono aumentati del 200 per cento e il 60 per cento degli omicidi riguarda la popolazione “nera”. Le nuove indicazioni alle forze di polizia sono di considerare sospetti tutti coloro che vengono trovati “fuori dal loro contesto naturale” come ad esempio un nero che guida un’auto nuova o che si trova all’interno dell’università, etc.
Per realizzare tutto ciò era necessario cancellare dalla scena l’unico avversario possibile. La distruzione dell’immagine di Lula attraverso i network mediatici è stata poi seguita da quella giudiziaria, costruita su un castello accusatorio di dubbia solidità.
L’indagine Lava Jato
L’indagine Lava Jato è la mega inchiesta sulla corruzione politica che, decapitando quasi tutti i partiti e mettendo in galera i principali politici e i più grandi imprenditori del paese, ha ridisegnato la geografia politica brasiliana. L’operazione ha coinvolto decine di imprenditori, di esponenti politici ed ex presidenti, non solo in Brasile. E soprattutto ha portato in prigione l’ex presidente Lula, rinchiuso a Curitiba dal 2018, rendendolo ineleggibile. La sua esclusione dalle elezioni presidenziali, basata su una decisione del giudice Sérgio Moro, ha aperto la strada alla vittoria di Bolsonaro.
Con le prime condanne, per la maggioranza dei brasiliani Moro era diventato un idolo, il simbolo della lotta all’impunità nel paese. Ma oggi l’ex giudice che ha diretto l’inchiesta anticorruzione Lava Jato (autolavaggio), nel frattempo diventato ministro della Giustizia e della sicurezza nel governo di Bolsonaro, e con palesi ambizioni politiche, è anche il protagonista principale di uno scandalo che potrebbe avere ripercussioni serie sulla politica del Brasile.
E’ comprensibile che ciò accada se si utilizza la magistratura a fini politici e se si calpestano diritti in nome della legge.
A colpi di intercettazioni
Quattro anni fa, la divulgazione delle conversazioni tra Lula e l’ex presidente Dilma Rousseff (Pt) portarono la maggioranza dell’opinione pubblica contro il Partito dei lavoratori, spianando la strada alla messa in stato di accusa e alla destituzione di Rousseff nel 2016 e al golpe e alla condanna di Lula nel 2018.
Più recentemente il sito Intercept Brasil, del giornalista americano Glenn Greenwald, ha pubblicato una prima piccola parte dei messaggi scambiati dall’allora giudice Moro e Deltan Dallagnol, il coordinatore dell’operazione Lava Jato. Quel terremoto ha spalancato le porte del Planalto all’ex poliziotto di estrema destra Bolsonaro, presentatosi come outsider nonostante sieda in Parlamento da 28 anni, eletto al ballottaggio con il 53 per cento dei voti provenienti in gran parte dal Brasile bianco, informato e ricco.
Il contenuto dei dialoghi filtrato finora è così esplicito da non lasciare dubbi sulla non imparzialità dei giudici incaricati dei processi che hanno incarcerato, tra altre centinaia di persone, l’ex presidente Lula da Silva, costretto a ritirarsi dalla corsa al Planalto.
L’imbarazzo degli interessati è totale. Nessuno ha smentito il contenuto dello scoop che mostra come Moro influisse pesantemente nella raccolta degli indizi che poi era chiamato a giudicare. Basterebbe questo, secondo la legge brasiliana, per invocare la nullità dei processi. Intercept dice di avere ricevuto il materiale da fonte anonima settimane prima e di avere ancora molte sorprese da parte. Il fatto che l’oggetto dello scoop sia stato raccolto illegalmente, dettaglio fondamentale che il sito nega, lo rende inutilizzabile per procedere contro i giudici, andrebbe riacquisito per via legale, ma è impugnabile invece dalla difesa dei condannati.
Gli avvocati di Lula si sono scatenati. La sentenza di condanna dell’ex presidente è molto lacunosa ed è stata da tempo smontata punto per punto da un esercito di giuristi. Ma ciò serve a poco.
Dalla Moro-leaks emerge come i magistrati violassero la legge e si scambiassero messaggi come adolescenti.
Non bastava questo a gridare allo scandalo? A far dubitare dell’imparzialità del giudice?
E’ lo stato di diritto in Brasile, tanto quanto Lula, a essere stato danneggiato dal caso Moro, che avrebbe dovuto far sorgere anche nei più acerrimi nemici del partito di Lula interrogativi sulla limpidezza dei processi della Lava Jato. Invece, c’è voluta la diffusione degli screenshot del telefonino di Moro per far riflettere il Brasile sulla possibilità che si sia scelto per giustiziere un giudice di parte, gonfio di vanità, tanto accorto da lasciare tracce come un adolescente maldestro.
Non solo, più passa il tempo e maggiori appaiono i legami tra Bolsonaro, i suoi famigliari e l’omicidio di Marielle Franco. Ronnie Lessa, arrestato con l’accusa di avere ucciso a colpi di arma da fuoco la consigliera del Partito socialismo e libertà (Psol), è un vicino di casa del presidente della Repubblica. Sua figlia frequentava uno dei figli di Bolsonaro. L’altra persona coinvolta nel delitto appare in una foto con Bolsonaro. Nel primo anniversario della morte di Marielle le “coincidenze” si sommano.
“L’Amazzonia è un problema brasiliano”
Per stigmatizzare le campagne internazionali sull’Amazzonia, Bolsonaro ha reagito spiegando che sono “affari loro”; poi ha accusato Lula per la deforestazione è infine le ong di avere appiccato gli incendi. In realtà Bolsonaro ha, per legge, dato il via libera alla deforestazione di 143 aree. E non a caso ha cancellato qualsiasi rappresentanza indigena dal suo governo. Non ha mai nascosto le sue credenze razziste nei confronti degli indigeni: “E’ un peccato che la cavalleria brasiliana non sia stata efficiente quanto quella americana nello sterminare i suoi indiani”, aveva detto al Correio Braziliense il 12 aprile 1998.
Al contrario, la Cisl con l’Iscos, la propria ong, da diversi anni sostiene le comunità locali dell’Amazzonia, il polmone verde della Terra.
Due presìdi di speranza
La scorsa settimana, con le rappresentanze di fabbrica Fim Cisl degli stabilimenti italiani, abbiamo visitato lo stabilimento più giovane di Fca a Goyana, un polo di 14.000 lavoratori nello stato del Pernambuco.
Il presidente ha dato il via libera alla deforestazione di 143 aree. Cancellando la rappresentanza indigena dal governo
Lo stabilimento è avanzatissimo, con una capacità di 250.000 veicoli annui, ed è la sintesi delle maggiori (15.000 migliori prassi) innovazioni industriali del World Class Manufacturing degli stabilimenti Fca più all’avanguardia del mondo, di cui quelli italiani sono in testa. Lo stabilimento produce Jeep Compass, Renegade (note anche in Italia) e il bellissimo Pick-Up Toro della Fiat, che a mio avviso avrebbe molto successo in Europa. Inoltre, numerosi tecnici si sono formati a Melfi e nella sua Academy. Unico neo: le relazioni sindacali. Fca, come Volkswagen negli Stati Uniti, mal tollera le sindacalizzazioni dei propri stabilimenti all’estero, cadendo in un grave errore. Sono molteplici le cause di scontro con la Cnm/Cut che ricordano gli anni Sessanta in Fiat. E’ un vero peccato perché la fabbrica è bellissima. Molta industria 4.0, grande diffusione di robotica avanzatissima, 607 robot Comau in lastratura e assemblaggio e altri Komatsu nello stampaggio. 16 robot cooperativi assemblano saldando la carrozzeria e hanno la capacità di cambiare modello di auto con un settaggio di pochi secondi: la massima flessibilità consiste nel passare alla realizzazione di una carrozzeria di un diverso modello di veicolo in pochi attimi. In molte realtà industriali bisogna cambiare linea di produzione per una versatilità del genere. L’impiego di una simile tecnologia cambia il ruolo dei lavoratori, ne richiede una maggiore professionalità ma migliora al contempo la qualità del lavoro risparmiando il tempo di realizzazione di migliaia di punti di saldatura, manualmente.
In un paese dove ogni quaranta secondi brucia una superficie di Amazzonia grande come un campo da calcio, vi è una grandissima fabbrica che funziona a energia rinnovabile (idroelettrico), emette zero CO2 ed è dotata di un’area che preserva la biodiversità delle specie. Sarebbe importante che la politica italiana comprendesse che queste aziende rappresentano un orgoglio per il nostro paese, da vantare in Italia e nel mondo.
Il sapere è l’angiogenesi di ogni populismo che si sconfigge ricostruendo relazioni umane forti e offrendo un lavoro dignitoso
Il manifatturiero avanzato fa del bene a tutti: all’ambiente, alla formazione diffusa sul territorio (anche in questo stabilimento vi sono strumenti simili all’alternanza scuola lavoro) e all’occupazione: ogni posto ne genera altri nell’indotto e nei servizi avanzati.
Le storie come queste dimostrano quanto lavoro e industria siano uno snodo che in maniera diversa mette in discussione l’economia e la società chiusa. Pinochet nel 1973 cacciò le multinazionali dal Cile, compresa la Fiat. Oggi il maldestro mix di statalismo e promesse di liberismo rischia di avere lo stesso effetto, nonostante le promesse fatte alle multinazionali in campagna elettorale, e produce generalmente pessimi risultati sul piano sia macroeconomico che sociale.
La favela Jardim Climax
In un sindacato come la Fim si cresce senza chiudere gli occhi dinnanzi ai dualismi del mondo. La Favela di Jardim Climax ha una storia straordinaria. E’ stata fondata nel 1984 da una vera leader popolare, Natalina Berto, una suora laica, padovana, arrivata in Brasile qui 40 anni fa. E’ stata la favela di San Paolo che per prima si è auto-organizzata per costruire le fognature e organizzare il riscatto attraverso la cultura, la scuola e la formazione. Natalina è una donna forte, critica verso l’eccessivo ricorso ai sussidi proprio anche della gestione del presidente Lula. Grazie a lei, riusciamo a entrare senza pericolo nella favela, luogo in cui lo spaccio, i furti e gli omicidi sono ancora frequenti. Ma Natalina viene rispettata per il suo lavoro, per i 200 bambini che ogni anno frequentano il bellissimo asilo, mentre i più grandi fino ai 18 anni grazie a lei e alla sua squadra imparano i mestieri per non rimanere imprigionati nei sussidi ma avviare il loro riscatto. A San Paolo ci sono mendicanti ovunque. E’ la città con più italiani al mondo (circa 4 milioni). Droga e povertà imperversano. La durezza della polizia, che ha ispirato diversi film noti anche in Italia tra cui “Tropa da Elite” di José Padilha, non migliora il livello di criminalità. Le persone come Natalina, ex rappresentante dell’Inas-Cisl che qui esercita un grande ruolo per gli emigrati italiani, sanno bene che il riscatto passa dalla formazione e dal lavoro. In un momento in cui ci insegnano che tutto ciò che arriva da lontano ci deve spaventare, incoraggia pensare che ci siano persone come lei che organizzano per i bambini di strada feste e passeggiate culturali, portandoli al cinema, a teatro, alle mostre, educandoli al bello.
Attualmente Natalina ci dice che molte attività rischiano di fermarsi per la carenza di risorse e per la troppa burocrazia. Ma bisogna tenere in piedi questo ponte.
La povertà umana è prima povertà di legami e poi è economica: si abbatte ricostruendo le comunità delle persone e del lavoro. Servono fabbriche, lavoro ma soprattutto organizzatori di comunità, maestri di strada. Ovunque. Il nazionalismo e il populismo sono uno stato mentale in cui si vota il partito che meglio riesce a cogliere, in una comunità disgregata, il “sentiment” fatto di percezioni, emotività sorrette da fake news e ignoranza. Il sapere è l’angiogenesi di ogni populismo che si sconfigge ricostruendo relazioni umane forti, autentiche e offrendo un lavoro dignitoso.
Nei nostri confronti sindacali sono emersi molti problemi comuni: la grande capacità attrattiva della proposta populista mette fuori gioco la sinistra tradizionale e sottrae popolarità al sindacato. La ricostruzione del rapporto con le persone va condotta su basi nuove, non solo post-ideologiche ma improntate ad azioni concrete, interpretando la nuova fase politica con strategie in cui si torna ad abitare i problemi e i luoghi reali dove vivono le persone, è una sfida non solo brasiliana.
Cosa c'è in gioco