Dubbi su una svolta
Perché dubitare che un approccio “volontario” basti a cambiare rotta sull’immigrazione. Parla Ricolfi
Roma. “Da oggi l’Italia non è più sola”, disse il premier Giuseppe Conte il 29 giugno 2018, all’indomani del Consiglio europeo che dava il via ai ricollocamenti “su base volontaria”, poi non se ne fece nulla. A distanza di un anno, torna il vento dell’ottimismo nelle dichiarazioni del governo sul patto di solidarietà da siglare il prossimo 8 ottobre a Lussemburgo. “Io vedo soltanto ombre – dichiara al Foglio Luca Ricolfi, professore di Analisi dei dati all’Università di Torino – Si parla di ricollocamenti obbligatori ma se varranno soltanto per i paesi firmatari saranno volontari e, poiché al momento non si conoscono né le quote di redistribuzione né i paesi partecipanti, io userei cautela”. Per il governo si afferma un principio: chi entra in Italia entra in Europa. “Non è la prima volta che i leader europei lo enunciano a parole, poi nei fatti i migranti continuano a sbarcare in Italia e qui rimangono. Nessun paese che si affaccia sul Mediterraneo ha offerto porti alternativi a quelli italiani e maltesi. La novità è che Germania e Francia si dichiarano disponibili ad accogliere migranti economici, anche se rimangono vaghe le modalità d’esame delle richieste d’asilo e le procedure di identificazione”. La cooperazione rafforzata riguarderebbe soltanto i migranti trasferiti su navi umanitarie e militari. Secondo l’Ispi, nel 2019 solo il 9 per cento è sbarcato in Italia con questi mezzi. “Poiché la maggior parte degli arrivi avviene su barchini e gommoni, l’Italia continuerà a vedersela da sola”.
L’ex ministro dell’Interno Marco Minniti ha detto che la redistribuzione è uno dei quattro pilastri di una politica sui migranti. “Con il trattato di Dublino ancora in vigore, i partner europei si limiteranno ad accogliere poche migliaia di migranti. L’Europa afferma che bisogna entrare attraverso canali legali ma poi non fa nulla per organizzarli concretamente. Il modello dovrebbe essere quello canadese dove gli eritrei vengono ammessi in base ai punteggi, per quote, dopo un’attenta selezione, e una volta superati i testi culturali e di lingua vengono seguiti dai centri per l’impiego per un tempo congruo a integrarsi nel mercato del lavoro. Secondo l’Alto commissariato delle Nazioni unite per i rifugiati, l’hotspot realizzato in Niger per accogliere le persone detenute illegalmente in Libia con la promessa di corridoi umanitari verso l’Europa si è trasformato in un collo di bottiglia. L’Ue aveva promesso che ne avrebbe accolti quattromila, alla fine ne ha presi quattrocento”. Nei prossimi trent’anni la popolazione africana salirà a due miliardi e mezzo. Una strategia di lungo periodo può occuparsi soltanto di accoglienza e non dei “push factor” che spingono gli africani ad abbandonare la loro terra? “E’ un tema decisivo: per quanto il mercato del lavoro europeo possa assorbire una frazione di popolazione africana, la soluzione non è trasferire l’Africa in Europa. Inoltre, se consideriamo l’impennata di sbarchi nelle ultime settimane, è in atto un’inversione di tendenza preoccupante”.
Quest’anno l’Italia ha registrato circa 22 arrivi al giorno fino al 5 settembre, poi gli ingressi quotidiani sono saliti a 72. “I trafficanti di esseri umani hanno recepito il messaggio che in Italia è cambiato il governo e in Europa è cambiato il clima. A dispetto delle rassicurazioni del premier, la nuova situazione rischia di rappresentare un bengodi per i trafficanti interessati non alla buona riuscita degli sbarchi ma ai denari sborsati da questa massa di disperati. Nel villaggio globale le dichiarazioni dei capi di stato e di governo non influenzano soltanto le opinioni pubbliche occidentali ma anche quelle dei paesi di partenza”. Sempre Minniti è tornato a denunciare il “paradosso” della missione navale Sophia priva di navi in mare e l’urgenza di ripristinare la sicurezza in Libia. “Sembra di essere ad un bivio: se sacrificare l’umanità in Africa o la civiltà in Europa. Da una parte, il trasferimento di popolazione da un continente all’altro sarebbe il de profundis della nostra civiltà. Dall’altra, ci sono il caos libico e l’assenza dell’Europa”. La stessa che, per blindare la rotta balcanica, ha dato sei miliardi di euro alla Turchia di Erdogan. “Non si spende una parola su ciò che accade nei campi profughi turchi, né qualcuno osa chiedere conto alla cancelliera Angela Merkel delle infamie che vi si perpetrano. Pochi giornalisti se ne occupano perché sarebbe anti-europeo; sparare contro la Libia invece ha un tono anti-salviniano, più suadente”. Hanno sollevato un polverone le parole della presidente della Commissione Ursula von Der Leyen: “Dovremmo esseri fieri del nostro stile di vita europeo”. “Vi è il richiamo a una identità culturale da tutelare: il rispetto per la libertà e per il corpo delle donne, e la netta separazione tra stato e chiesa sono princìpi fondanti della civiltà europea. Tuttavia, siccome viviamo nel mondo del politicamente corretto, la stessa presidente si è affrettata a precisare con la solita ipocrisia delle istituzioni europee che, quando hanno un’idea sensata, quasi se ne vergognano”.
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