A Hong Kong non c'è più niente da festeggiare. Specialmente oggi
Carrie Lam vola a Pechino per partecipare alle celebrazioni del 70° anniversario della fondazione della Repubblica popolare cinese. Per la prima volta dal 1997, nell’ex colonia inglese, la Festa nazionale più importante della Cina non si farà
Roma. Ieri Carrie Lam, capo esecutivo di Hong Kong, è salita su un volo Air China – e non Cathay Pacific, compagnia di bandiera di Hong Kong – per volare a Pechino e partecipare alle celebrazioni del 70° anniversario della fondazione della Repubblica popolare cinese. E’ un segnale notevole: per la prima volta dal 1997 nell’ex colonia inglese la Festa nazionale più importante della Cina non si farà, e il capo del governo locale ha preso posto in prima fila all’inaugurazione delle celebrazioni con il presidente cinese Xi Jinping in piazza Tian’anmen. A Hong Kong, invece, non ci saranno i tradizionali fuochi d’artificio, un po’ come “concessione” per i manifestanti e un po’ per evitare l’effetto provocatorio. La verità è che nell’ex colonia inglese nessuno ha voglia di festeggiare. Specialmente dopo il fine settimana appena trascorso, perché a ogni manifestazione la reazione della polizia diventa sempre più dura, e sabato “l’aria era irrespirabile”, hanno detto praticamente tutti i giornalisti stranieri presenti per coprire la manifestazione. Nella guerriglia urbana tutti sono nemici: una reporter indonesiana ha subito una lesione all’occhio dopo essere stata colpita da un proiettile di gomma domenica, nonostante indossasse casco e occhiali. La polizia, secondo il South China Morning Post, nel fine settimana ha arrestato almeno cento persone, e ieri circolavano dei video sui social network dove si vedono alcuni arrestati che, mentre vengono portati via dalla polizia, gridano il proprio numero di previdenza, in modo da essere identificati dai media. In modo da non sparire nel nulla.
La storia si ripete ogni settimana, da oltre cinque mesi, ma più passa il tempo più la popolazione si divide, così come l’opinione pubblica – anche se, c’è da dire, non c’è alcuna divisione tra i manifestanti come invece si sospettava: quasi tutti appoggiano le “tecniche radicali”, la guerriglia urbana e la disobbedienza civile, ha rilevato in un articolo scientifico Samson Yuen della Lingnan University, tecniche considerate necessarie per “massimizzare i risultati”, insomma per farsi ascoltare. La contropropaganda è invece ai massimi livelli: il Global Times, organo in lingua inglese del Partito comunista cinese, ha ormai una sezione dedicata al “dateline Hong Kong”, in cui mostra pedissequamente “i danni” provocati dai “facinorosi”, dà seguito alle teorie complottiste di “manine straniere” e risponde alle accuse internazionali sulle “reazioni brutali della polizia”. “Continueremo ad applicare in pieno il principio un paese, due sistemi” mantenendo “un alto livello di autonomia”, ha detto Xi durante il discorso ufficiale di ieri, parlando soprattutto ai moderati di Hong Kong: una vaga immagine di apertura alla quale però non corrisponde una risposta concreta alle domande di chi protesta (suffragio universale, una commissione indipendente sulla brutalità della polizia).
La strategia di Pechino è chiara: picchiare più forte fino a che i ragazzi non si stancano, non mollano, come fu nel 2014. Difficile, anche per chi coordina le proteste di Hong Kong, riuscire a mantenere alta l’attenzione dei media internazionali. Lo si è visto sabato scorso: il 29 settembre era stata convocata una “marcia globale contro i totalitarismi”, erano previste più di cinquanta manifestazioni in altrettante città del mondo. Poche hanno avuto la partecipazione sperata. E forse il record per minor numero di partecipanti è andato a Milano: in largo Carioli c’era una trentina di persone, forse meno. La maggior parte stranieri, con il volto coperto dalle mascherine. A Taipei, la capitale di Taiwan, alla marcia hanno partecipato in duemila, e c’era anche Denise Ho, cantante e attivista, che si è presa della vernice rossa addosso dai contro-manifestanti.