Dopo la Via della Seta, il governo giallorosso vuole costruire una nuova strategia cinese
La stretta di mano tra il neoministro degli Esteri Luigi Di Maio e il suo omologo cinese Wang Yi. Dopo la firma dell'intesa con Pechino, qual è la strategia dell'Italia con la Cina?
Roma. Giovedì scorso il ministro degli Esteri Luigi Di Maio, a New York per l’Assemblea generale dell’Onu, ha avuto un breve bilaterale con il suo omologo cinese Wang Yi. L’incontro e le foto della gran stretta di mano sorridente, pubblicate da tutti gli organi ufficiali – sia cinesi sia italiani – di certo servivano a sistemare il casino provocato da Xinhua, l’agenzia di stampa statale cinese. In un articolo pubblicato il 5 settembre, subito dopo la formazione del governo giallorosso in Italia, la nomina di Di Maio agli Esteri veniva definita “inusuale”: “Il trentatreenne non ha una laurea, ha una limitata conoscenza di lingue straniere, ha dimostrato poco interesse per la politica estera nella sua vita pubblica”. Poi qualcuno ha fatto notare ai vertici dell’agenzia che Di Maio è lo stesso politico che esattamente sei mesi fa, con altro incarico ministeriale, ha apposto la firma sull’intesa sulla Via della Seta con la Cina. Solo allora il paragrafo su Di Maio è scomparso, e la figura del ministro è stata riabilitata dalla stretta di mano a New York. La fragilità della figura politica di Di Maio in politica estera è nota (“difficile fare il ministro degli Esteri e occuparsi di dossier complicati se la tua attenzione è tutta sulle questioni interne”, ci dice una fonte diplomatica straniera che preferisce restare anonima), ma se durante l’esperienza di governo M5s-Lega la posizione dell’Italia nei confronti della Cina era lasciata all’improvvisazione e all’iniziativa personale – “con esempi di genuflessioni e sinofilie sconcertanti”, commenta un’altra fonte istituzionale – dopo il gran caos della Via della Seta sembra che la lezione sia stata recepita. E’ il momento di un cambio di passo, di una strategia coordinata. L’arrivo a Roma del segretario di stato Mike Pompeo, oggi, è un segnale mirato a “rafforzare l’alleanza”: un’espressione diplomatica in questo caso molto significativa. Pompeo incontrerà Mattarella, Conte e Di Maio – oltre a una breve visita a Caramanico Terme, comune di meno di duemila abitanti della provincia di Pescara, in Abruzzo, paese dei suoi nonni.
“Alla prima riunione del ministro Di Maio con sottosegretari e viceministri è stato ribadito che la politica estera di un paese come l’Italia è una sola”, dice al Foglio Marina Sereni, viceministro agli Esteri in quota Pd, che qualche giorno fa ha pronunciato il discorso d’apertura della festa nazionale all’ambasciata cinese a Roma. Un discorso concordato e coordinato con tutti, spiega Sereni, perché “bisogna avere una linea politica coerente, un indirizzo, nel rispetto sia dell’Europa sia dell’Alleanza atlantica”. Rafforzare i rapporti bilaterali, “anche all’interno della Via della Seta, ma con più attenzione al multilateralismo. Stiamo lavorando il più possibile sul coordinamento”, dice Sereni, proprio per evitare “le sovrapposizioni” di competenze – quelle che durante lo scorso governo anche questo giornale ha rilevato di frequente sugli affari esteri.
Per Ivan Scalfarotto, sottosegretario alla Farnesina di Italia Viva, “bisogna continuare a lavorare intensamente con la Cina. Credo però che ai nostri amici cinesi si debba chiedere quello che si chiede a tutti gli amici e ai partner internazionali: rispetto, franchezza e reciprocità. Rispetto per la nostra collocazione internazionale all’interno dell’Ue e dell’Alleanza atlantica, che sono capisaldi inamovibili della nostra politica estera”. Durante la sua prima esperienza da sottosegretario al Mise, Scalfarotto ha viaggiato moltissimo in Asia, e con la Cina “possiamo e dobbiamo fare grandi cose: intensificando il lavoro comune, aumentando le visite di politici e imprenditori a tutti i livelli, investendo reciprocamente nei due paesi e collaborando insieme in paesi terzi. Ma per la nostra partnership è fondamentale che il nostro lavoro avvenga in una chiave di assoluta parità”. Per esempio “chiedendo anche alla Cina di affrontare con noi alcuni problemi che sono ancora sul tavolo, dalla sovrapproduzione di acciaio alla tutela della proprietà intellettuale, dalle barriere al commercio agli investimenti nel paese. Insomma, una partnership rafforzata, un rapporto cordiale e intenso, e una relazione paritaria ispirata alla massima collaborazione”.
Stefano Buffagni, viceministro allo Sviluppo economico, ha partecipato la scorsa settimana a Tianjin, in Cina, al Business Forum Italia-Cina. In quanto parlamentare Cinque stelle molto vicino a Di Maio, Buffagni non ha nulla da dire sull’intesa politica firmata a marzo con la Cina – intesa che finora non ha portato a nessun vantaggio a livello economico. Anzi, spiega al Foglio: “L’obiettivo che ci siamo dati è quello di dare continuità e se possibile rafforzare i rapporti di collaborazione e amicizia con il governo cinese”. Se possibile, come? “Stiamo lavorando per incrementare le nostre esportazioni verso la Cina e ridurre il deficit commerciale che da troppi anni ormai caratterizza il nostro interscambio”. Si parla di commercio ma anche di internazionalizzazione delle nostre imprese, dice Buffagni, senza dire molto più di quello che si diceva già un anno fa, prima della firma del memorandum con Pechino. “La Cina è anche il più grande serbatoio di riserve valutarie internazionali”, e i dati economici uniti “alla misura della sua popolazione si traducono in bisogni in termini di infrastrutture, servizi pubblici, sanità, mobilità, tutela dell’ambiente, sicurezza alimentare, energia, edilizia residenziale, equilibrato sviluppo sociale e lungimirante sviluppo urbanistico”. Settori in cui l’Italia, secondo Buffagni, ha molto da offrire.