Tormento catalano
A due anni dal referendum, né a Madrid né a Barcellona sanno darsi pace, e la Catalogna ossessiona tutti
Milano. Il primo ottobre di due anni fa sembrava che la Catalogna fosse sul punto di esplodere. Quel giorno si era tenuto il referendum illegale per l’indipendenza della regione spagnola, il mondo guardava inorridito le manganellate della polizia ai seggi (e per quanto giusto orrore fu profuso in quei giorni di ferite lievi, è paradossale quanta poca solidarietà arrivi in questi giorni a Hong Kong, dove ieri i poliziotti hanno tirato fuori le pistole, e le hanno usate), e sembrava che la Catalogna sarebbe stato il prossimo problema che avrebbe messo in crisi l’Europa: una grossa e ricca fetta di Spagna che vuole l’indipendenza, che è pronta a difenderla con tutti i mezzi e che però vuole rimanere nell’Unione europea, che pasticcio. In realtà, dopo qualche mese di tempesta, la situazione in Catalogna si è relativamente placata. Il governo centrale ha attivato l’articolo 155 della Costituzione, che mette sotto tutela le autonomie regionali. Carles Puigdemont, il governatore catalano artefice del referendum, è fuggito in Belgio e continua periodicamente a rilasciare interviste; si è pure fatto eleggere europarlamentare, ma ancora non si sa se prenderà mai possesso del suo seggio, considerato il suo stato di fuggitivo. Dopo qualche tempo l’Europa ha archiviato il problema come non più esiziale. Ma per la Spagna la Catalogna è rimasta quasi lo stesso tormento che era due anni fa – e questo vale tanto per gli spagnoli quanto per i catalani.
I fatti della cronaca recente riguardano alcuni membri dei Comitati per la difesa della repubblica (Cdr) arrestati perché, sostiene l’accusa, lavoravano alla creazione di un gruppo terroristico indipendentista. I Cdr sono un gruppo di volontari creato all’indomani del referendum e molto sostenuto dal governo di Barcellona. Alcuni di loro, secondo le intercettazioni, aveva fondato un gruppo nuovo, gli Equipos de Respuesta Táctica (Ert), che preparava una campagna di sabotaggi violenta, con tanto di esplosivi. Negli scorsi giorni ci sono stati nove arresti, quasi tutti di incensurati quaranta-cinquantenni, che non sembrano esattamente brigatisti pericolosi, ma che comunque hanno preoccupato le autorità: in Catalogna c’è chi progetta azioni violente.
L’episodio potrebbe rivelarsi minore, ma se lo si unisce all’anniversario di ieri, alla campagna elettorale in corso in tutto il paese per le elezioni generali e all’avvicinarsi della sentenza contro i politici catalani messi sotto giudizio dopo il referendum si capisce bene perché la questione catalana non ha mai abbandonato il centro del dibattito politico. Ieri Quim Torra, successore di Puigdemont alla guida della regione, ha detto che i catalani devono “procedere senza scuse verso la repubblica catalana” – non esattamente un messaggio distensivo. Ugualmente Pedro Sánchez, presidente del governo facente funzioni, ha approfittato dell’anniversario per dire che lui si è informato, e che il suo governo, anche se provvisorio, gode dei pieni poteri per applicare di nuovo l’articolo 155 alla Catalogna se dovessero esserci disordini e tentativi di secessione. Sánchez teme la pubblicazione della sentenza sui politici catalani, che dovrebbe avvenire nei prossimi giorni, possa generare un’ondata di proteste. Al tempo stesso cerca di mostrarsi duro con gli indipendentisti per accreditarsi come commander in chief davanti all’elettorato nazionale, ed è difficile dire quale delle due esigenze prevalga. Questo è un problema, perché il leader socialista sarebbe quello meglio attrezzato per risolvere la questione catalana con un buon compromesso. Purtroppo non può fare a meno di rispondere alla retorica durissima dei suoi avversari (e della controparte catalana) mostrandosi duro anche lui.
Pablo Casado, leader del Partito popolare, ha chiesto ieri nuove limitazioni all’autogoverno dei catalani, mentre Albert Rivera di Ciudadanos si presentava al Parlamento locale di Barcellona con un’enorme bandiera spagnola. Vox, il partito di ultradestra divenuto una forza politica nazionale soltanto negli ultimi due anni, ha confezionato nuovi slogan nazionalisti ad hoc. Proprio l’ascesa di Vox è sintomatica di quanto la Catalogna sia un’ossessione nociva per la politica spagnola. Il successo del partito neofranchista è dovuto, secondo gli analisti, principalmente a due fattori: la crisi migratoria, e questo è avvenuto in tutta Europa, e il fatto che Vox ha saputo cavalcare come nessun altro l’ondata di nazionalismo generata dalla crisi catalana.
Con quattro elezioni in quattro anni, il sistema politico spagnolo è in piena fase emergenziale. Ma forse più ancora che l’eterno ritorno delle urne il vero problema che blocca la politica spagnola è l’incapacità di risolvere la questione della Catalogna.