Gli utili idioti di Kim
La Corea del nord usa i viaggiatori come bancomat, e loro pensano di avere un’avventura esotica. Non sempre finisce bene per gli occidentali. Per uscire dal luogo comune bisogna ascoltare chi ci ha vissuto
L’ultima a essere “quasi arrestata” si chiama Liziane Gutierrez, ha trentatré anni, fa la modella, l’avvocato e l’“international media personality”, almeno così dichiara sul suo profilo Instagram. “Quasi arrestata” è proprio il titolo usato dai tabloid anglosassoni per descrivere il suo viaggio in Corea del nord, un paese a lungo considerato, nel luogo comune mediatico, “il più recluso al mondo”. Qui dove la cronaca è più che altro sensazionalismo, dove niente può essere verificato e tutto viene spacciato come verosimile, la Gutierrez atterra il primo settembre. Lo annuncia con una foto su Instagram, esplicitando il vero motivo per cui una influencer dovrebbe farsi un giro nella Repubblica Popolare Democratica di Corea: pubblicità. Il viaggio è infatti uno spot per la Young Pioneer Tours, uno dei pochi tour operator a organizzare spedizioni in Corea del nord. “Ti piacerebbe partire per una destinazione dove tua madre preferirebbe non mandarti?”, recita la scritta pubblicata su Instagram dalla Gutierrez, che nella didascalia aggiunge: “E’ una domanda interessante, vero? Se la tua risposta è sì, Young Pioneer è la tua migliore opzione”. La foto successiva viene pubblicata diciotto giorni dopo. Si vede la modella in piedi su un letto disfatto, solo una coperta a celarne le nudità, e in testa un cappellino da baseball bianco con la bandiera rossa e blu della Corea del nord. “Questa foto è stata scattata in Corea del nord e tutto quello che c’è da sapere sul mio viaggio lo trovate in una mia intervista al Mirror. Quando ho deciso di accettare questa collaborazione l’ho fatto per aiutare le persone a capire che non c’è niente di cui aver paura in Corea del nord, ma soprattutto non sapevo che mi sarei divertita così tanto. Tra poco pubblicherò tutte le follie del mio viaggio, siete pronti!?”. L’intera operazione era quindi finalizzata a mostrare il lato “pazzesco” (così come lo direbbe M¥SS KETA) del viaggiare nel paese “più recluso del mondo”. E nell’intervista al Mirror, la Gutierrez usa il più banale dei luoghi comuni per sottolineare l’esotica avventura: il quasi-arresto. “Una modella famosa per aver citato in giudizio il cantante Chris Brown ha rischiato di finire in prigione in Corea del nord per aver rubato da ubriaca il cappello a un soldato e per aver posato nuda per le foto”, è l’attacco dell’articolo del tabloid inglese. Qualche riga più in basso si capisce che la Gutierrez non ha rischiato proprio nulla, non è stata portata via da degli agenti, né fermata né interrogata: il controllo degli smartphone all’uscita dal paese è una prassi ormai per chiunque si trovi in territorio nordcoreano, non solo per le modelle influencer. Ma in un paese come la Corea del nord è facile essere ripresi, oppure sanzionati, se non si conoscono le regole di ingaggio o se – volontariamente, come in questo caso – si cerca di provocare una reazione. E lei ammette di aver bevuto molto durante il suo soggiorno, di essersi fatta dei selfie al Grande monumento Mansudae dove ci sono le statue di Kim Il Sung e Kim Jong Un (sono proibiti), di aver indossato in giro per la città una striminzita gonna con su la scritta “USA”, di aver rifiutato un costume da bagno un po’ più esteso per nuotare nella piscina dell’hotel dove alloggiava. In una fotografia pubblicata sul profilo instagram Gutierrez è ancora sul letto, mostra le forme e il cappellino con la bandiera nordcoreana e scrive nella didascalia: “Questa foto potrebbe costarmi quindici anni di prigione. Perché l’ho fatto? Non lo so”. Forse perché non è vero.
Il caso della modella Liziane Gutierrez, “quasi arrestata” in Corea del nord. Ovviamente era un’operazione commerciale
All’idiozia del cercare di fare notizia, peraltro diffondendo notizie false estremizzando l’eccentricità di un paese come la Corea del nord, siamo purtroppo abituati. Per molto tempo il paese – ancora tecnicamente in guerra con la Corea del sud dopo il conflitto terminato con un armistizio nel 1953 – è stato raccontato da chi puntava proprio su questo, sull’inverificabilità di alcune storie. Perché tutto era diluito nella propaganda, e dal fatto che a Pyongyang, soprattutto in passato, non c’era nessuno a cui interessasse smentire le fake news che circolavano in occidente. Resta il fatto che la Corea del nord è un regime, che negli ultimi settant’anni ha speso gran parte del suo budget e delle sue risorse per diventare una potenza atomica. Per molto tempo i governi americani hanno tentato di risolvere la questione: Donald Trump ha addirittura aperto al riconoscimento del leader, primo presidente in carica a stringere la mano al leader Kim Jong Un. Ma nel frattempo gli eventi del 2017 – i test di missili balistici intercontinentali, i test atomici, la propaganda antiamericana – avevano di fatto aumentato la tensione, e quindi le contromisure degli altri paesi nei confronti di Pyongyang. Il Consiglio di sicurezza dell’Onu ha imposto più sanzioni economiche, ha vietato ai paesi membri di accogliere lavoratori nordcoreani, l’America ha imposto il divieto di viaggio in Corea del nord per i suoi cittadini, mentre altri paesi lo sconsigliano fortemente. Sono tutte misure che sono ancora in essere, oggi, nonostante i tentativi di apertura dell’Amministrazione sudcoreana di Moon Jae-in e, in misura diversa e per finalità diverse, di Trump.
Il paese può essere pericoloso anche per chi lavora o studia. Anche per chi dimostra affezione. Il caso dell’australiano Alek Sigley
E’ anche per questa incapacità di “normalizzare” la Corea del nord che l’operazione di Liziane Gutierrez di finire sui giornali scandalistici è riuscita. Ma l’aspetto più inquietante è che il tour operator Young Pioneer è lo stesso con cui lo studente americano Otto Warmbier è arrivato a Pyongyang nel dicembre del 2015. La sua storia la ricorderete: Otto prende parte a un tour di gruppo che promette “un’avventura” nel “paese più recluso al mondo” per il Capodanno 2016. Passa la serata a festeggiare in piazza Kim Il Sung, a Pyongyang. Ma è al ritorno in hotel, al lussuoso Yanggakdo International, che succede qualcosa: secondo la versione nordcoreana, Otto si introduce in una zona proibita del quinto piano e ruba un manifesto di propaganda. Il giorno dopo, all’aeroporto di Pyongyang, viene portato via dalle Forze dell’ordine e sparisce. Due mesi dopo compaiono sui media nordcoreani le immagini del “processo”, in cui Warmbier è costretto a confessare di essere una spia americana, viene condannato a quindici anni di lavori forzati, e però ha un aspetto strano, non si regge bene in piedi. Di lui si perdono di nuovo le tracce, mentre la diplomazia sottotraccia lavora, fino a quando nel giugno del 2017 non viene rimpatriato “per motivi sanitari”. Otto Warmbier torna in America in coma, e muore sei giorni dopo. La sua storia diventa uno dei fattori più complicati dei rapporti tra Washington e Pyongyang, Trump la usa per accusare Kim Jong Un, la Corea dice che Otto era malato già da prima, manda addirittura il conto delle spese mediche sostenute. Si apre però un dibattito su chi era responsabile della sicurezza di questo studente, che voleva solo avere “un’avventura esotica”, era curioso, e probabilmente è finito in mezzo a una storia più grande di lui. La Young Pioneer commenta con uno scarno comunicato, si unisce alle condoglianze ma legalmente si protegge dicendo che non ha alcuna responsabilità nella vicenda. La giornalista del Washington Post Anna Fifield, una delle più esperte sul caso, fa intendere su Twitter che gli stranieri che partecipano ai tour organizzati da Young Pioneer sono spesso ubriachi, e quindi inconsapevoli: “La ricetta per un disastro”, scrive. L’inconsapevole testimonianza della brasiliana Liziane Gutierrez conferma tutto.
“Questa foto potrebbe costarmi quindici anni di prigione. Perché l’ho fatto? Non lo so”. La Young Pioneer Tours e Otto Warmbier
“La notte di Pyongyang è una notte come nessun’altra, tutto è di un buio denso come un budino al cioccolato. Ci muoviamo nell’oscurità percorrendo ogni sera la stessa strada, eppure ogni sera sembra diversa. I nostri piedi scoprono un nuovo mattone dissestato, una lucina che appare da una finestra, un chioschetto ritardatario. Tra poco sarà il 27 luglio, l’anniversario della fine della guerra, giorno in cui i coreani del nord festeggiano la vittoria contro gli Stati Uniti (e che i coreani del sud festeggiano all’incontrario). In piazza Kim Il Song si svolgono le prove per la parata. Noi non potremo partecipare alle sfilate perché l’Unione europea vuole mostrare così la sua disapprovazione nei confronti degli ultimi test e dei lanci balistici. Ce ne staremo tutti a casa e rifiuteremo l’invito dicendo gentilmente no grazie, ho avuto istruzioni dai piani superiori. Come se questo avesse un valore simbolico. Sappiamo benissimo che i russi e i cinesi e tutti i Paesi asiatici ci saranno, e pure quelli africani, e magari pure il Brasile, quindi è difficile che qualcuno si accorga che quelli dell’Unione europea mancano all’appello. Ma tant’è, come Garibaldi dobbiamo eseguire gli ordini, e a dirla tutta molti di noi prendono questa cosa assai seriamente, la impregnano di significati simbolici e si lanciano in piccole arringhe al Friendship. Io e Kevin invece siamo soltanto dispiaciuti perché avremmo tanto voluto vedere la parata, e non possiamo. Allora ogni sera ci spingiamo fino al lungofiume, dal quale si vedono le luci di piazza Kim Il Song e si sentono i tamburi e le voci dei capigruppo nei megafoni, a dirigere migliaia di persone nelle loro figure collettive”. Carla Vitantonio è stata spesso l’unica italiana in territorio nordcoreano. Molisana, è arrivata a Pyongyang nel 2012, ha iniziato insegnando l’italiano, ma poi è rimasta lì fino al giugno del 2016, per quattro anni in totale, lavorando come cooperante. E nel periodo più importante per il paese, quello del passaggio di potere da Kim Jong Il (morto il 17 dicembre 2011) a suo figlio Kim Jong Un: un leader giovane, che iniziava a consolidare il suo potere. La sua esperienza, e la sua vita “spericolata”, Vitantonio l’ha raccontata nel libro “Pyongyang blues”, appena uscito per Add editore.
Nel mucchio di numerosi e sensazionalistici volumi su “la mia settimana in Corea del nord”, “la mia vacanza nel paese più recluso del mondo”, turisti che si trasformano in autori, la testimonianza di Vitantonio è una delle pochissime davvero credibili, perché traccia una linea di confine con il turista occasionale – i turisti in Corea del nord sono costantemente accompagnati dalle “guide”, gli interpreti che controllano i movimenti dei visitatori, e quindi si muovono in una specie di “Truman Show” fatto apposta per loro, è anche per questo che nel caso della Gutierrez la guida probabilmente ha pensato fosse solo un’oca, e non una minaccia.
Nel mezzo di numerosi e sensazionalistici volumi di turisti, spunta la storia dell’italiana che ha vissuto a Pyongyang quattro anni
C’è invece chi ha fatto i conti ogni giorno, e per diversi anni, con il vivere in un paese come la Corea del nord. Perché in fin dei conti è una vita quasi normale, lontana dai sensazionalismi a cui siamo abituati: si gira in macchina, si mangia nell’unico fast food di Pyongyang, si frequentano i karaoke, si balla (“A Pyongyang si balla come in nessun’altra città del mondo. Si balla sempre, comunque, in qualsiasi evenienza e senza ritegno”). Soprattutto si frequentano gli altri expat. “Li chiamiamo così: married but available. La famiglia li aspetta in residenze di lusso in Svizzera, Canada, Stati Uniti, e loro si fanno alcuni anni di hardship [il lavoro in sedi disagiate] tornando a casa una volta ogni otto settimane. E siccome secondo le regole non scritte del diritto umanitario il tradimento effettuato oltreoceano pare cessare di essere tale, se una vuole passare il tempo senza fare progetti per il futuro non c’è che l’imbarazzo della scelta”, scrive Vitantonio. E quindi si fa l’amore, a Pyongyang, e chi lavora lì guarda i turisti come strani esemplari di esseri umani. Per esempio, sull’hotel dove alloggiava Otto Warmbier, Vitantonio scrive: “Lo Yanggakdo è l’albergo situato sull’isola in mezzo al fiume, dove in genere vengono parcheggiati i turisti. E’ diventato famoso perché Guy Delisle, il fumettista canadese, lo ha dipinto nelle sue tavole e ha parlato bene del ristorante cinese al primo piano, che poi non è tutto sto che, comparato ad altri in centro città. Noi lo chiamiamo Hotel Alkatraz, vista la posizione e il fatto che in pratica è una sorta di – neanche troppo dissimulata – prigione di lusso per tenere sotto controllo turisti potenzialmente pericolosi. Nel sotterraneo c’è una piccola pista da bowling dove coreani e stranieri vanno a giocare e fumare. Noi ci andiamo piuttosto spesso, visto che giocare a bowling è una delle poche attività che si possano svolgere la domenica sera”.
Tra il turista che cerca l’avventura esotica e chi lavora in Corea del nord c’è una differenza di conoscenza del territorio abissale, ma anche nel secondo caso, a volte, le cose possono mettersi male. Perché il regime di Kim Jong Un è pur sempre un regime, e questo non andrebbe mai dimenticato. Alek Sigley, un australiano di ventinove anni, studiava Letteratura coreana alla Kim Il Sung University. Era anche un incredibile divulgatore di cose nordcoreane da lì: attraverso il suo blog, e alcuni articoli sui media internazionali, cercava di mostrare al mondo la versione più “umana” della Corea del nord – quella lontana dal regime, e da chi prende le decisioni a Pyongyang. Era attivo su Twitter e su Skype, il mezzo con cui comunicava quotidianamente con la sua famiglia. Poi un giorno a fine giugno è sparito. Di Alek Sigley non si è saputo nulla per 48 ore, poi si è diffusa la notizia che fosse accusato di spionaggio, ma la diplomazia si è attivata e ha avuto successo. Dopo una settimana è arrivato all’aeroporto di Tokyo, e ha fatto una sola dichiarazione pubblica: non sono una spia, questa vicenda mi rende molto triste, non tornerò in Corea del nord e non parlerò mai più di questa vicenda.