È ora di portare Israele in Europa
Il dovere di difendere i simboli del mondo libero. L’antisemitismo è il termometro che misura la forza di tutti i fanatismi. Perché il governo ha il dovere di far rivivere un vecchio sogno pannelliano: sfidare l’estremismo portando Israele in Europa
Poche ore dopo l’attacco terroristico alla sinagoga di Halle, il primo ministro di Israele, Benjamin Netanyahu, ha affermato che l’attentato in Germania, dove sono morte due persone ma dove ne potevano morire oltre settanta, è “un’ulteriore testimonianza del fatto che l’antisemitismo in Europa sta aumentando”. Netanyahu ha chiesto non solo alla Germania di combattere con tutta la forza necessaria contro l’antisemitismo, ma ha ricordato anche che Israele – a prescindere da quello che sarà il suo destino politico – continuerà a promuovere con tutti i mezzi una campagna di educazione finalizzata a dimostrare che l’antisemitismo non è un problema che riguarda gli ebrei bensì tutto il mondo libero ed è la spia di quelli che sono gli effetti dell’estremismo di ogni genere: una volta che si apre il ventilatore dell’odio contro il diverso, contro l’infedele, contro lo straniero, contro una religione, il fango che si viene a generare rischia semplicemente di non essere più controllabile.
In Germania lo scorso anno gli attacchi violenti contro gli ebrei sono quasi raddoppiati e secondo i dati diffusi a metà maggio dal ministro dell’Interno tedesco, Horst Seehofer, e dal capo dell’ufficio federale di polizia criminale, i reati di questo genere sono aumentati del 20 per cento. In Francia il presidente francese Emmanuel Macron ha affermato che la minaccia dell’antisemitismo ha raggiunto il livello più preoccupante dal Dopoguerra a oggi e secondo i dati diffusi a metà 2019 dal ministro dell’Interno francese, Christophe Castaner l’incremento dei casi è pari al 74 per cento nel giro di un solo anno. Nel Regno Unito, nel corso del 2018, il Community Security Trust ha registrato un numero record di atti violenti legati all’antisemitismo, con 1.652 episodi registrati nel 2018 (tra cui 123 casi di violenza), che corrispondono al 16 per cento di episodi rispetto al 2017, il dato più alto mai registrato dal 1984. Lo scorso 28 maggio l’Alto commissario per i diritti umani delle Nazioni Unite, Marta Hurtado, ha espresso preoccupazione per “l’aumento dei casi di antisemitismo che si sono verificati in diversi paesi europei e negli Stati Uniti” e ha invitato “tutti i governi a raddoppiare gli sforzi per combattere il razzismo e l’intolleranza correlata in tutte le sue forme”.
La crescita dell’antisemitismo, al contrario di quello che qualcuno vorrebbe far credere, non ha a che fare solo con l’inarrestabile ascesa del fanatismo islamista ma ha a che fare anche con la progressiva legittimazione di politiche specializzate nell’alimentare la paura nei confronti dell’apertura. E quando il diverso, lo straniero, lo “xenos”, diventa un nemico, di solito a farne le spese per primi sono sempre (anche se non esclusivamente come dimostra la strage di musulmani a Christchurch in Nuova Zelanda) coloro che si riconoscono nella religione ebraica. Vale quando l’estremismo è legato al fondamentalismo islamista, naturalmente, ma vale anche quando l’estremismo è legato all’ideologia xenofoba, come capita sempre più spesso in Germania, dove l’incremento degli attacchi contro gli ebrei, secondo dati recenti del ministero dell’Interno, registra una matrice di estrema destra nel 90 per cento dei casi (l’attentatore di Halle, poco prima di tentare la strage, ha pubblicato online il suo manifesto in cui ha invitato i suoi possibili follower “a uccidere il maggior numero possibile di antibianchi, meglio se ebrei”). “L’antisemitismo – ha affermato qualche mese fa la rabbina francese Delphine Horvilleur, autrice di un libro sulla questione, in una dichiarazione ripresa da un ricco dossier del sito Valigia Blu – non è mai un odio isolato ma il primo sintomo di un collasso in arrivo. L’antisemitismo è la feritoia di una falla in realtà più ampia, ma è raramente interpretato come un precursore quando colpisce: questa piaga non riguarda solo gli ebrei, riguarda l’intera società”.
Di fronte a questo scenario semplicemente raccapricciante, e in una fase in cui gli amici di Israele, come gli Stati Uniti, mostrano di avere amore per Israele molto a parole ma poco con i fatti, ci si può limitare a mostrare la propria vicinanza a tutti coloro che vengono perseguitati ogni giorno per il loro credo (l’incaricato del governo federale tedesco per la lotta all’antisemitismo, Felix Klein, a maggio ha detto di “sconsigliare agli ebrei tedeschi di indossare sempre e ovunque la kippah in Germania”) o si può immaginare una qualche iniziativa politica finalizzata a dimostrare che l’Europa non è il continente da cui gli ebrei si devono difendere ma è il continente che invece può aiutare gli ebrei a difendere la loro identità e a combattere la cultura dell’odio. In questo senso un’iniziativa politica di cui il governo italiano potrebbe farsi carico è rendere nuovamente attuale una vecchia e formidabile idea di Marco Pannella: trasformare Israele nella frontiera d’Europa, dimostrare che mai come in questo momento difendere i simboli dell’ebraismo significa difendere i simboli del mondo libero e mettere a nudo tutti i finti nemici della libertà attraverso una battaglia concreta: allargare fino a Israele i confini dell’Unione europea. Sarebbe, diceva Pannella, un modo per portare una rivoluzione democratica in tutto il medio oriente, per difendere la nostra democrazia, per combattere l’antisemitismo non solo a parole e provare a far detonatore l’estremismo, dimostrando chi la libertà la vuole difendere con i fatti e chi invece solo a chiacchiere. Vogliamo Israele in Europa. Se lo volete anche voi, firmate qui: [email protected]