Civili curdi arrivano a Tall Tamr, nella provincia nordoccidentale di Hasakeh (foto LaPresse)

L'abbandono del Rojava

Adriano Sofri

Dice un proverbio che solo le montagne sono amiche dei curdi. In Siria, un popolo senza stato, usato e tradito, combatte ancora. E aspetta di mettersi in marcia verso il suo futuro

Sono sempre i penultimi giorni dell’umanità. Sanno offrire nuove prime volte. E’ la prima volta che un presidente degli Stati Uniti annuncia, come un maggiordomo, l’invasione di un territorio altrui da parte di un dittatore islamo-nazionalista deciso al massacro. Anzi, due prime volte, perché l’ha fatto con un tweet. Probabilmente non è il primo presidente ebete degli Stati Uniti, ma la differenza di quantità ha il suo peso. A uno che sbriga l’affare per telefono con Erdogan, dichiara che i curdi sono stati abbondantemente pagati per il loro servizio tribale, dichiara che i curdi sono una gran gente ed egregi combattenti, e dichiara che hanno omesso di sostenere lo sbarco in Normandia, va riconosciuta l’aggravante dell’infermità totale. Un curdo, una curda, non hanno uno stato proprio, e non lo avranno mai, e non avranno mai uno stato amico: amiche dei curdi sono solo le montagne, dice il proverbio, e implica che amica dei curdi sia solo la guerra, la guerra altrui. La curda, il curdo, nascono fuori da uno stato, ma nell’ombelico della geopolitica. Non avendo uno stato, devono giocare con gli stati degli altri. Sono un vaso di coccio tra due di ferro, ma sanno che, fino a un certo punto, i vasi di ferro hanno bisogno della fragile separazione del vaso di coccio, il cuscinetto, la buffer zone, tolta la quale sarebbe il cozzo. La guerra all’Isis è stata probabilmente l’ultima occasione per alcuni curdi di procurarsi qualcosa che somigliasse alla sovranità degli stati, attraverso una diplomazia pagata a prezzo di sangue: il percorso che portò due secoli fa le nazioni europee divise a guadagnarsi l’indipendenza. Due anni fa, nel finale di partita con l’Isis, i curdi iracheni giocarono i loro dadi sul tavolo del referendum per l’indipendenza, contando su una condiscendenza post factum degli americani, e i curdi siriani si erano guadagnati da protagonisti sul campo un terzo di Siria, dal quale avrebbero espugnato le ultime roccaforti jihadiste e controllato la maggior dote di petrolio e campi di grano. La questione curda aveva d’un tratto due poli d’attrazione concorrenti, come mai era successo. Finalmente, i curdi della eterna diaspora non sarebbero stati costretti a sottomettersi alla potenza più vicina per sentirsi un po’ protetti contro la potenza dentro i cui confini erano chiusi. Durò, nel Kurdistan iracheno, un mese, in realtà lo spazio della notte in cui i notabili delle sue due fazioni principali si vendettero a vicenda al padrone iraniano e ai suoi gregari iracheni. Ebbero in cambio qualche pozzo a Kirkuk e la felicità di veder diminuito con sé il rivale, e i roboanti proclami di Trump mostrarono di essere fatti d’aria. Il Rojava teneva, oltretutto perché bisognava venire del tutto a capo dei possessi territoriali dello Stato islamico, com’è avvenuto solo quest’anno. E stringe il cuore sentire oggi gli appelli alla solidarietà internazionale dei militanti curdi motivati col rischio (fondatissimo) del ritorno dell’Isis: come se la loro esistenza e libertà avessero solo questo incarico cui appigliarsi. Immaginate quanto forte debba essere oggi la tentazione di quei curdi invasi e abbandonati, di aprire le porte di campi di miliziani jihadisti e foreign fighter frustrati, e loro donne, ancora più combattive e irriducibili circondate dai loro bambini – decine di migliaia, in campi in cui a volte i carcerieri stessi non si attentano a entrare.

 

 

La guerra all’Isis è stata probabilmente l’ultima occasione per i curdi di procurarsi qualcosa che somigliasse alla sovranità degli stati

I curdi sapevano che la resa dei conti sarebbe venuta. Con Erdogan, il quale non si limita a usarli come capri espiatori della sua crisi interna, la lira traballante e le grandi città conquistate dall’opposizione: Erdogan è malato di curdi, ossessionato. Ne brama la cancellazione. E insieme sa che le opposizioni che lo hanno umiliato – con l’eccezione del partito cosiddetto pro-curdo i cui leader e sindaci, donne e uomini, sono carne da galera – non hanno la forza né il coraggio di denunciare il suo oltranzismo militarista e nazionalista. L’alternativa a Erdogan sarà adeguata solo quando saprà sollevare francamente la questione curda e darle il suo nome. Dall’altra parte Assad, burattino sanguinario tenuto su da Russia e Iran, è anche lui deciso a riprendersi la Siria che i curdi, e i loro eventuali ed esitanti alleati arabi, hanno riscattato dallo Stato islamico. Vana è la carta, ventilata da qualche voce curda, di chiamare Assad e Putin e Lavrov e gli iraniani a rimpiazzare la diserzione di Trump, come mostrò platealmente l’attacco turco ad Afrin nel gennaio del 2018. Qualcuno avverte che il ritiro effettivo degli americani è altra cosa dal ritiro annunciato dai tweet di Trump, e che i capi del Pentagono non li seguono così automaticamente: ma il tweet di Trump bastava ad aprire la strada ai carri turchi, esattamente nei varchi lasciati sguarniti dalle poche decine di soldati americani; e ad aprire, quel che più conta, il cielo ai bombardieri. Quel cielo che americani e altri soci effettivi della coalizione internazionale si erano riservati, per non sporcarsi i piedi, sicuri d’esser coperti sul suolo dagli scarponi (e le scarpe da ginnastica, e le ciabatte) curdi, e che ora li lascia senza riparo sulla testa.

 

  

Il più amaro retaggio della storia contemporanea sta nella persuasione che la rivoluzione sia il frutto della guerra

In Europa il divario fra l’inerzia o, quando anche affiori una parvenza di commozione, l’impotenza dei governi e dell’Unione europea, e la simpatia e anche il mito delle combattenti curde e della loro rivendicazione di fierezza e libertà, è paradossale. Al di là delle identificazioni politiche più strette e informate, una affezione “garibaldina” per un popolo che si è battuto “per noi” e che ha pagato un prezzo alto di vite – migliaia, 11 mila, dicono i curdi del nordest siriano, e decine di migliaia di feriti – è larghissimamente diffusa. Nell’identificazione politica, viceversa, l’impegno combattente contro lo Stato islamico, e l’alleanza decisiva con gli Stati Uniti (e Francia, Gran Bretagna, eccetera) viene dopo, come uno scotto inevitabile, la messa in opera di una società nuova che prende i nomi, i sinonimi, di confederalismo democratico, ecologia sociale, democrazia diretta, autogoverno femminista, municipalismo libertario… Altro paradosso apparente: che la società nuova e antigerarchica ed ecologica cresca nonostante i vincoli mostruosi della guerra e della sua disciplina, della devastazione di vite e cose, dell’incombenza continua di traslochi ed esodi, della abnegazione e del sacrificio. Fatta la tara al mito, e a una nostalgia esotica di romanticismo a risarcire scetticismo e cinismo della nostra vita sociale, l’ammirazione per l’esperienza civile del Rojava s’inganna quando vede nella mobilitazione militare solo un ostacolo e una minaccia di rovina. Il più amaro retaggio della storia contemporanea sta nella persuasione che la rivoluzione sia il frutto della guerra. Oggi, nei paesi ricchi, quelli che si sono permessi di stare a lungo senza guerra fino a dimenticare che fossa di sangue, fango e merda sia, lo strano slogan No Future non sa, non vuole, non risponde, ha ceduto il passo a quello “Friday for Future”. Chissà se vuole trovare una connessione con quello che succede nei posti delle bombe, come ora, ancora, nel Rojava, dove una guerra dei nove anni stava per finire, e un’altra la rinnova. Dove un futuro lungo di generazioni aspetta di mettere in spalla le sue cose e scappare, vecchi e bambini, prima dell’alba di domani.

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