Budapest ribelle
Il neo sindaco Karácsony interrompe il potere orbaniano unendo l’opposizione. Una svolta o un’eccezione?
Milano. La gioia è esplosa di colpo nel bar tutto specchi e malinconia che è diventato il quartier generale dei giornalisti arrivati a Budapest per seguire la notte elettorale: Gergely Karácsony è il nuovo sindaco della capitale ungherese, Fidesz, il partito di governo, è stato battuto. Molti ci speravano e pochi ci credevano per davvero, anche se Budapest non è mai stata una preda facile per l’orbanismo: il premier, Viktor Orbán, vince tutte le elezioni, municipali e nazionali, dal 2006, ma già allora non riuscì a conquistare la capitale e dovette aspettare il 2010. Ora che Karácsony ha espugnato di nuovo Budapest, si sente aria di svolta, di trasformazione, di promessa: per la prima volta, l’opposizione fragile dell’Ungheria che non fa in tempo a unirsi contro Orbán che subito comincia a litigare e a ridividersi è riuscita a portare il suo candidato fino al traguardo, e alla gioia si mischia una gran sollievo. “Összefogas”, ripetono gli ungheresi cercando di scandire bene la parola per renderla comprensibile alle nostre orecchie impermeabili al magiaro: opposizione unita, vuol dire, ed è la formula magica di questo successo, banalissima e pure potente, perché rassegnarsi allo strapotere dei partiti pigliatutto è una costante che abbiamo visto spesso e ovunque, in Ungheria poi sembrava quasi una prassi. E allora: Budapest è un inizio o è un’eccezione?
Nel grande scontro tra città e campagne che accompagna da anni molte campagne elettorali, c’è sempre la tendenza a innamorarsi dell’eccezione, aggrappandosi alla speranza che le città siano i motori del cambiamento e non delle sacche di resistenza liberali e globalizzate che finiscono per isolarsi sempre più. L’illusione è la malattia peggiore dei liberali, al punto che molti autori e commentatori si sono messi a immaginare un futuro che sa di passato, città-stato che vivono nella loro bolla e finiscono per accontentarsi della propria sterile unicità. Si resiste, poi chissà, arriverà il riscatto.
Budapest è in questo punto preciso: l’azzardo e la vittoria, il riscatto in mano a un uomo di 44 anni, Gergely Karácsony che parla di alberi da piantare e della famigerata linea 3 della metropolitana da ampliare, degli ospedali che sono una piaga nazionale tanto è impossibile farsi curare in Ungheria e della necessità di ridare la città ai cittadini, con quel “mindekié” che svetta sui suoi cartelloni (vuol dire ciascuno, vuol dire: sto parlando proprio a te) e sa di vicinanza, di cura, di attenzione. Poi Karácsony urla “guiderò una città libera!” e la mente corre al primo riferimento di libertà che il neosindaco aveva fatto mesi fa: Istanbul, faremo come Istanbul, il primo pezzetto del muro autocratico che viene giù. Il 51 per cento degli abitanti di Budapest ha voluto fidarsi della triangolazione che Karácsony ha avuto con il sindaco di Istanbul (che subito domenica gli ha fatto i complimenti sui social) e con quello di Varsavia, un’ideale alleanza di città che raccolgono le forze, iniziano la ribellione e non si accontentano di essere un puntino di resistenza, vogliono essere la centrale del contagio. A Karácsony al momento basta aver dimostrato che uniti si vince: tutti i partiti di opposizione in Ungheria, litigiosi e rancorosi, lo hanno sostenuto, e Jobbik, che sta a destra di Fidesz, ha deciso di non candidare un’alternativa, che è la cosa più vicina a un sostegno che questo partito cannibalizzato dall’orbanismo è riuscito a fornire. I Verdi hanno proposto la candidatura di Karácsony, gli altri lo hanno sostenuto e accolto e applaudito, anche i socialisti che pure in questa convivenza non sono mai stati troppo comodi. Soprattutto quando è circolato un audio del neosindaco in cui condannava la corruzione e la mania di arricchirsi dei socialisti (pare che a far circolare l’audio sia stato Fidesz, all’ultimo, per la disperazione): ma ormai la coalizione era fatta, nessuno si è azzardato a rovinarla.
Ora Karácsony dice che vuole essere il sindaco di tutti non solo di chi lo ha votato, abbandona i toni da campagna elettorale e prova a incamminarsi sulla strada della pacificazione, che è il passo decisivo se non si vuole essere soltanto un’eccezione, se non ci si accontenta di essere ribelli solitari, se si vuole dare un’occasione all’alternanza.
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